Il dipinto, variamente attribuito dalla critica a Girolamo Muziano, Bartolomeo Cavarozzi e Giovan Francesco Barbieri detto il Guercino, è attestato in collezione Borghese a partire dal 1693. Raffigura la cosiddetta Carità romana, soggetto ripreso da un'antica leggenda romana che narra la storia di Cimone e Pero. Quest'ultima, bellissima e coraggiosa fanciulla romana, decise di salvare l'anziano padre, condannato a morire di fame, nutrendolo col latte del proprio seno. Tale gesto, celebrato dagli antichi come esempio di pietas, intenerì così tanto i carcerieri da indurli a liberare il vecchio Cimone.
Salvator Rosa (cm 122,2 x 121,5 x 7,5)
Roma, collezione Borghese, 1693 (Inventario 1693, Stanza I, n. 15; Della Pergola 1959); Inventario 1700, c., Stanza I, n. 11; Inventario 1790, Stanza I, n. 17; Inventario Fidecommissario Borghese 1833, p. 28. Acquisto dello Stato, 1902.
La provenienza di questo dipinto è tuttora ignota. La tela, infatti, figura per la prima volta in casa Borghese a partire dal 1693, elencata come "un quadro di 4 palmi in circa con la Carità Romana che allatta un vecchio manettato del numero 62 con cornice dorata del Mutiani" (Inv. 1693). Il riferimento al Mutiani, alias Girolamo Muziano da Brescia, fu subito cassata negli inventari settecenteschi, dove l'opera è descritta come 'maniera del Veronese', attribuzione ripresa sia nel Fidecommesso (1833), sia da Giovanni Piancastelli (1891).
Allontanandosi dall'ambito veneto, nel 1893 Adolfo Venturi, forse spinto dal soggetto, parlò di 'Arte romana del XVII secolo', terreno su cui si mosse Roberto Longhi, avanzando dal canto suo il nome di Bartolomeo Cavarozzi, artista viterbese, legato al vocabolo caravaggesco. Tale nome, assieme a quello del Guercino (Ramdhor 1787; Vasi 1792), fu scartato da Paola della Pergola (Ead. 1959) che cautamente ritornò sulla strada indicata da Venturi, pubblicando l'opera nel catalogo dei dipinti della Galleria Borghese come 'Maestro romano' vicino alla cerchia del tardo manierismo romano.
Ritornando sul dipinto dopo diversi decenni di oblio, nel 2006 Kristina Herrmann Fiore (Ead. 2006) ha avvicinato l'opera all'attività di un anonimo 'Maestro senese'. Ma vari elementi, come una timida adesione al naturalismo e al luminismo della pittura caravaggesca, mediati da un afflato emiliano, suggeriscono di riportare la tela all'ambiente romano dei primi anni Venti del Seicento, dove come risaputo il caravaggismo aveva acquisito una nota più dolce e intimistica. Il dipinto, inoltre, mostra una certa affinità con la cultura veneta, prontamente individuata negli inventari borghesiani, in cui non a caso la Carità è elencata come 'maniera del Veronese', in riferimento con tutta probabilità non a Paolo Caliari, bensì ad Alessandro Turchi detto il 'Veronese'. Questi, infatti, nato a Verona nel 1578, è attestato nell'Urbe a partire del 1616 dove, allontanatosi dalla cultura figurativa tardomanierista, partecipò alle novità caravaggesche, giungendo ad uno stile molto stimato dai pittori presenti in quel momento a Roma.
Antonio Iommelli