La storia collezionistica del quadro, già attribuito a Paul Brill, rimane ancora oggi piuttosto incerta, ma si ipotizza la sua provenienza dal sequestro dei beni del Cavalier d’Arpino (1607). Il piccolo dipinto su rame raffigura un paesaggio “puro”, dal quale è assente la figura umana. Esso si inserisce nella tradizione del paesaggio fiammingo italianizzato di cui Bril fu uno dei massimi rappresentanti, e che riscosse un grande successo fra i collezionisti del Seicento.
L’opera fa parte di una serie di quadri di paesaggio presenti nella raccolta Borghese generalmente ricondotti a Paul Bril o alla sua scuola, parte dei quali è stata riferita negli scorsi decenni a Frederik van Valckenborch. Quest’ultimo, anch’egli nativo di Anversa e di circa quindici anni più giovane di Bril, ne rimase certamente influenzato, riprendendo molti degli aspetti tipici della produzione pittorica del maestro, soprattutto quella degli anni Novanta del Cinquecento.
Il dipinto rappresenta un paesaggio “puro”, privo della presenza umana, che all’interno del nucleo Borghese si riscontra più raramente rispetto al paesaggio animato da figure, in genere di piccolo formato, ma che in realtà è riconducibile al medesimo genere del paesaggio fantastico, quello che ai tempi di Scipione Borghese andava sotto il nome di “paesi selvaggi”. È così che Scipione Francucci (1613, st. 126-127), autore di un poema celebrativo sulla collezione d’arte del cardinale, fa riferimento al gruppo di paesaggi di stampo brilliano, compreso forse quello in esame, con una terminologia che ben chiarisce quanto in queste rappresentazioni la natura costituisca sempre l’elemento dominante della scena. La figura umana e le sue vestigia, laddove presenti, si pongono come aspetti di minore entità e vengono quasi assorbite dalla natura stessa, grande protagonista di questo genere di dipinti, che si sviluppa liberamente accogliendo piccole figure di santi e pastori, oppure chiese ed edifici in lontananza (Herrmann Fiore 1985, p. X; Cappelletti 2006, pp. 178-179, nota 38).
Caratteristiche ben visibili anche in questo dipinto, ambientato in un vasto paesaggio collinare sviluppato su diversi piani di profondità, dove al centro, parzialmente coperta dalle fronde degli alberi, spunta una chiesa. Più lontano sulla destra e poi ancora sulle sponde delle colline che proseguono sullo sfondo, alcune altre costruzioni dai contorni sempre più sfumati, quasi a confondersi con la natura stessa. La vegetazione è resa finemente, soprattutto in primo piano, dove le fronde degli alberi sono attraversati dai raggi del sole che danno vita a dinamici contrasti luce-ombra.
Il contrasto chiaroscurale tra il primo piano e lo sfondo è un elemento frequente nella produzione fine cinquecentesca di ambito brilliano, anche se in questo dipinto viene ripreso in maniera più smorzata rispetto, per esempio, al Paesaggio con San Francesco (inv. 265), di stesso formato e supporto e riconducibile al medesimo contesto.
Cronologicamente l’opera è collocabile tra gli anni Novanta del Cinquecento e i primissimi del Seicento.
La provenienza del Paesaggio fantastico è tuttora incerta, anche se si ipotizza che il suo ingresso nella collezione Borghese possa essere avvenuto tramite il noto sequestro di opere d’arte subito dal Cavalier D’Arpino (Giuseppe Cesari) nel 1607, a seguito del quale tutti i dipinti confiscati divennero proprietà del cardinale Scipione Borghese. Tuttavia l’identificazione del quadro nell’inventario del sequestro risulta pressoché impossibile data la mancanza di attribuzioni e la genericità con cui sono solitamente descritti i paesaggi. Più di una voce dell’elenco potrebbe infatti corrispondere a questo dipinto, per esempio al n. 32 “Un altro quadretto di rame di Paese con le cornici di noce” (Della Pergola 1959, pp.151-152, n. 212; Herrmann Fiore 2000, pp. 62-63)
Anche negli inventari Borghese l’identificazione del dipinto rimane dubbia. Della Pergola (cit.) lo riconosce nell’elenco fidecommissario del 1833 come uno dei “Due Paesi, in Rame di Paolo Brilli, in rame, larghi oncie 9; alti oncie 6”, di cui va tuttavia notata l’incongruenza tra le misure riportate e quelle reali.
L’attribuzione del quadro a Bril permane almeno fino al tardo Novecento: Adolfo Venturi (1893, p. 139) lo considera certamente di mano del maestro, così come Anton Mayer (1910, p. 76), che lo inserisce tra le poche opere che ritiene autografe e lo data al 1600 circa, e ancora negli anni Cinquanta sia Leo Van Puyvelde (1950, p. 74), retrodatandolo alla prima maniera, sia Della Pergola (cit.) lo riferiscono al pittore fiammingo.
Nel 1990 il dipinto è esposto in mostra a Roma con l’attribuzione a Bril, insieme al già citato Paesaggio con San Francesco, ma la critica più recente tende invece ad eliminare l’opera dal catalogo dell’artista (Cappelletti, cit.).
Per quanto riguarda l’assegnazione a Frederik van Valckenborch, riportata da Herrmann Fiore (2006, p. 89), essa non convince Alexander Wied (2016, p. 28), autore di recente studio monografico sul pittore e suo fratello Jillis, il quale considera il dipinto totalmente distante dalla produzione dell’artista fiammingo e lo riferisce ad un anonimo.
Pier Ludovico Puddu