Probabilmente collezione Scipione Borghese dal 1608; Inv. 1693, Stanza IV, n. 26; Inventario Fidecommissario Borghese 1833, p. 37. Acquisto dello Stato, 1902.
Il dipinto rappresenta un paesaggio dall’atmosfera incantata, avvolto in una luce azzurrina che attenua i contorni degli edifici e il clivo della collina che degrada verso il grande letto del fiume, centrale nella composizione della tela. È proprio all’interno delle acque in primo piano che avviene la scena che connota la composizione: in un turbinio di uomini, cavalli e onde sollevate dai loro movimenti sta avvenendo l’uccisione di un cervo durante una battuta di caccia. Mentre al di là del fiume, nel piccolo borgo si intravedono scene di vita quotidiana negli spazi antistanti le abitazioni, in primo piano, sulla sponda opposta, alcuni drappelli di nobili dame, cavalieri e soldati fanno da contorno alla scena venatoria. Le dame sono sedute insieme e un personaggio in piedi, vestito di rosso, sembra intento a indicare o a scrivere sul tronco di uno dei due alberi dalla chioma recisa.
La paternità della tela è da sempre controversa. Il primo inventario in cui è possibile riconoscerla è datato 1693, quando l’opera si trova nel casino di Porta Pinciana ed è da individuare, secondo alcuni studiosi, in uno dei quadri ascritti al «Dosi di Ferrara», attribuzione accettata da gran parte della critica tra fine XIX e inizio XX secolo, oppure in quel paesaggio segnato contrassegnato con il numero 322, che in effetti corrisponderebbe con quanto compare nel nostro quadro in basso a sinistra, assegnato nel documento secentesco al fiammingo Paul Bril. Gli studiosi ricollegavano questo dipinto alle vicende della spoliazione dei camerini d’alabastro del castello Estense e al conseguente intervento del marchese Enzo Bentivoglio, che nel 1608 ordinò di inviare quanto rimasto del patrimonio artistico dai camerini ducali alla residenza romana del cardinale Scipione Borghese, provenienza per altro indimostrabile in questo caso.
Nel 1924, Carlo Gamba accostò per primo il dipinto a Nicolò dell’Abate, seguito successivamente da Roberto Longhi e da Aldo De Rinaldis, che per rafforzare l’attribuzione posero la tela a confronto con il Paesaggio con caccia al cinghiale conservata presso la Galleria Spada a Roma (inv. 24).
L’avvicinamento iniziale alla pittura dossesca non è incomprensibile, poiché in quest’opera Nicolò rielabora i modi paesaggistici dei fratelli pittori ferraresi aggiornandoli con una cromia più fredda e acida e costruendo la scena in un ambiente di ascendenza cortese.
Alla conoscenza dei Dossi, Nicolò aggiungeva la capacità di tornire con precisione le figure umane presenti nei suoi dipinti, derivata dalla sua formazione tra le botteghe dello scultore modenese Antonio Begarelli e quella del padre Giovanni, aggiornata agli stilemi di matrice classicista derivati dalle opere di Raffaello e Correggio e alla riproduzione esatta e dettagliata dei particolari ricavata dallo studio e, forse, dalla collaborazione con i pittori fiamminghi attivi in area emiliana intorno alla metà del XVI secolo. Francesco Primaticcio lo segnalò ad Enrico II di Valois, che lo invitò a partecipare alla campagna decorativa del castello di Fontainebleau, divenendo uno degli esponenti della scuola pittorica locale. Insieme al suo collega e sostenitore bolognese lavorò negli ambienti della Salle de Bal (1554) e della Galerie d'Ulysse (1559-1560) ed ebbe modo di sperimentare diversi materiali e tecniche, realizzando disegni per smalti, arazzi e apparati effimeri commissionati dai regnanti d’oltralpe.
L’opera è databile agli anni bolognesi, immediatamente precedenti alla sua partenza per la corte francese, data l’originalità della composizione, caratterizzata da un’atmosfera fiabesca e una brillante vivacità dei colori con i quali sono descritte le figure mescolata agli atteggiamenti elegantemente aristocratici dei protagonisti, i cui corpi appaiono come delle silhouettes allungate. Questi elementi sembrano anticipare le soluzioni adottate dai Carracci nelle decorazioni a tema mitologico degli affreschi dei palazzi bolognesi delle famiglie Fava e Magnani.
Lara Scanu