Documentato nella raccolta pinciana a partire dal 1833, il dipinto fu esposto in pendant con un'altra tela tuttora in collezione Borghese (inv. 134). Raffigura un paesaggio fantastico dominato al centro da un grande albero che divide la scena in due parti: sulla sinistra una profonda vallata solcata da un'aspra altura in lontananza, sulla destra un promontorio roccioso su cui si erge una cittadina turrita.
Completamente fagocitate dalla natura, alcune minuscole figurine popolano la scena.
Cornice settecentesca decorata con acanto traforato (cm 43 x 65 x 4,5)
Roma, collezione Borghese, 1833 (Inventario Fidecommissario 1833, p. 36; Della Pergola 1959). Acquisto dello Stato, 1902.
La provenienza di questo dipinto è ancora ignota. L'opera, infatti, è identificabile solo a partire dagli elenchi fidecommissari ottocenteschi (Inventario Fidecommissario 1833) dove, in pendant con un'altra tela (inv. 134), risulta elencato come 'Paes[e]' di Pier Francesco Mola (Ivi). Tale attribuzione, ripetuta sia da Giovanni Piancastelli (Id. 1891), sia da Adolfo Venturi (Id. 1893), fu rigettata da Roberto Longhi (Id. 1928) che riferì la coppia di quadri ad un tardo settecentista straniero, un 'tedesco, operante, secondo verosimiglianza, a Roma' (Id.). Tale pista, accettata da Paola della Pergola (Ead. 1959) e ribadita da Kristina Herrmann Fiore (Ead. 2006), non è stata mai vagliata dalla critica.
Il dipinto, raffigurante un paesaggio fantastico, fu eseguito certamente a Roma dove il suo autore ebbe modo di confrontarsi con la produzione di Mola, cui la tela è stata, non a torto, avvicinata. L'opera, infatti, mostra alcune soluzioni stilistiche riscontrabili nelle composizioni dell'artista ticinese, a partire dalla stesura del colore fluida e vigorosa e dall'uso di una palette dominata da cromie sature e alquanto scure. Ma diversamente dal Mola, l'artista del Paesaggio Borghese utilizza la luce in maniera ingenua che sfiora - senza però penetrare - la natura, annullando di fatto quel pathos ricercato dal ticinese attraverso l'uso sapiente di lampi e guazzi di luce.
Antonio Iommelli