Il dipinto, firmato e datato, è la prima opera certa di Pellegrino Tibaldi, che lo portò a termine appena ventiduenne nel corso di un soggiorno formativo a Roma. Esso risulta di fondamentale importanza, non solo come ancoraggio cronologico per risalire all’anno di nascita dell’artista – non altrimenti documentato – ma anche come traccia per ricostruire le componenti culturali del suo stile pittorico, in grado di coniugare la lezione di Perino del Vaga (1501-1547), al seguito del quale egli esordì proprio nella capitale pontificia, con le suggestioni plastiche e coloristiche dell’arte di Michelangelo e dei suoi seguaci, tra cui Daniele da Volterra.
Il nucleo centrale con la Vergine, il Bambino e san Giuseppe, leggermente decentrato verso sinistra, appare quasi inghiottito dai convulsi e vorticosi movimenti delle figure circostanti, mentre in primo piano la Sibilla Eritrea, presenza inconsueta in rappresentazioni di tema analogo, dispiega i suoi vaticini, conferendo al quadro un’enigmatica quanto affascinante aura di mistero.
Forse collezione del cardinale Scipione Borghese (Francucci 1613, p. 67v); registrato negli inventari ante 1633 (n. 89, cfr. Corradini 1998, p. 451); 1693 (n. 40, Stanza I); 1760 (n. 16, Stanza II); Inventario Fidecommissario Borghese 1833, p. 17. Acquisto dello Stato, 1902.
Gloria in excelsis (sul cartiglio sorretto dall’angelo in alto)
Ja[m] nova progenies caelo demittitur alto (ai piedi della Vergine)
Peregrinus Tibaldi Bonon[iensis] Faciebat Anno aetatis suae XXII MDXLVIIII (sul gradone centrale)
Iudicii signum tellus sudore[m] madescet (sul margine del libro)
E caelo rex adveniet per saecula futurus / Scilicet in carne praesens, ut Iudicet orbem /Vnde Deum cernent Incredulus atque fidelis (in basso, ai piedi della Sibilla)
L’originaria committenza di questo dipinto e i passaggi collezionistici anteriori al suo approdo nelle raccolte borghesiane sono a tutt’oggi ignoti. Se non è infatti da escludere che esso possa identificarsi nel “quadro d’un Presepio con le cornici indorate con la coperta di taffettano rosso” (De Rinaldis 1936) elencato tra le opere confiscate nel 1607 da papa Paolo V Borghese al Cavalier d’Arpino (1568-1640) e poi donate al nipote cardinale Scipione, il riferimento è decisamente troppo vago per spingersi oltre la mera suggestione. Ad eccezione, dunque, di un possibile ma altrettanto dubbio accenno contenuto nella Galleria di Scipione Francucci (1613), la prima attestazione certa della tela in collezione si ricava da una lista di quadri, priva di riferimenti e di data, trascritta e pubblicata da Sandro Corradini (1998) e più di recente commentata da Stefano Pierguidi (S. Pierguidi, ‘In materia totale di pitture si rivolsero al singolar Museo Borghesiano’. La quadreria Borghese tra il Palazzo di Ripetta e la Villa Pinciana, “Journal of the history of collections”, 26, 2014, 2, pp. 161-170), che ha proposto di riconoscervi l’inventario post mortem dello stesso Scipione Borghese, datandolo a ridosso della scomparsa di quest’ultimo nel 1633. Nel 1650 Giacomo Manilli, guardarobiere di casa, tornò a menzionare “il quadro grande […] della Vergine con Christo in braccio, e con molte figure attorno, […] di Pellegrino da Bologna” nella sua guida della Villa Pinciana, seguito più tardi da Carlo Cesare Malvasia, che nella biografia dedicata a Tibaldi nella Felsina Pittrice (1678) ricordava l’opera romana nella medesima collocazione. L’inventario del 1693 ne documentava il provvisorio spostamento nel palazzo di Campo Marzio (cfr. Della Pergola 1964), dove essa si trovava ancora nel 1760 (De Rinaldis 1937).
Considerato nativo di Puria di Valsolda, sul versante comasco del lago di Lugano (da dove in effetti proveniva il padre muratore, trasferitosi per lavoro a Bologna), Pellegrino si dichiarò tuttavia sempre bolognese e come tale firmò nel 1549 la tela in esame, primo suo lavoro certo e caposaldo cruciale per la ricostruzione dei suoi esordi da pittore. Il dipinto, sicuramente realizzato a Roma e ben esemplificativo delle suggestioni michelangiolesche assorbite dal giovane artista nella capitale pontificia, presenta un’iconografia complessa ed estremamente articolata sul piano compositivo, che indirizza verso un committente di alto rango e vicino alla curia papale (tra i nomi più plausibili si annoverano quelli dei cardinali Giovanni Poggi, Guidascanio Sforza e Rodolfo Pio da Carpi). Fulcro della scena è la Vergine, disposta centralmente verso sinistra, in posizione sopraelevata e intenta a sorreggere sul fianco un guizzante Bambino Gesù, che si divincola aggrappato alla veste della madre. Alle loro spalle si scorgono nell’oscurità un bue e un asino ragliante dietro una mangiatoia e l’anziano Giuseppe, in posa di adorante sorpresa, sulla sinistra; dal cielo sopraggiungono un angelo con un cartiglio recante l’iscrizione “Gloria in excelsis” e alcune figure non alate, mentre tre altri angeli appaiono più lontani tra le nubi. Il lato destro è invaso di personaggi. Alcuni, affastellati in secondo piano, sembrano affluire con pose concitate attraverso un’apertura che si intravede sullo sfondo, altri sono invece più incombenti e meglio visibili: un uomo anziano dai tratti quasi grotteschi, assai tipico del repertorio di Tibaldi, con lunga barba, il petto nudo e le braccia sollevate sul capo; una figura maschile abbigliata di rosso e di verde che si protende con il corpo in avanti; un giovane seduto, con lo sguardo rivolto al Bambino e il corpo semicoperto da un panno; infine, in sequenza dall’alto verso il basso, un secondo anziano barbuto, un giovane seminudo con un turbante in capo e la mano tesa in un gesto allusivo, con il dito indice alzato, e un terzo uomo di spalle, anch’esso unicamente vestito di un panno succinto, che protende a mani giunte le braccia verso il cielo. A terra in primo piano sono disposti accumuli di tessuti, un libro aperto con una lunga iscrizione, e una figura femminile accovacciata, abbigliata all’antica e con un turbante in testa, affiancata da un bizzarro fanciullo che sorregge sulle spalle un altro volume. Più indietro emerge appena il profilo di un giovane volto maschile, dipinto con toni scuri e rivolto in preghiera verso la Vergine, con cui sembra scambiare uno sguardo diretto, forse un celato autoritratto del pittore.
L’opera si presenta costellata di iscrizioni, che ne strutturano su più livelli l’interpretazione. Il gradone su cui poggia il gruppo della Sacra Famiglia ne accoglie due: una ai piedi della Madonna, “Ja[m] nova progenies caelo demittitur alto”, l’altra al centro, contenente la firma dell’artista “Peregrinus Tibaldi Bonon[iensis] Faciebat Anno aetatis suae XXII MDXLVIIII”. Più in basso, la figura femminile china sulla sinistra, identificabile proprio grazie alle iscrizioni come la Sibilla Eritrea, dirige entrambe le braccia verso un libro aperto dietro di lei, sul quale si legge “Iudicii signum tellus sudore[m] madescet”; ai suoi piedi si trova infine un secondo volume sul quale posa un cartiglio che ospita l’iscrizione più lunga tra tutte: “E caelo rex adveniet per saecula futurus / Scilicet in carne praesens, ut Iudicet orbem /Vnde Deum cernent Incredulus atque fidelis”. Se lette di seguito, le ultime due frasi compongono l’incipit di un testo liturgico noto come Canto della Sibilla, ripreso da sant’Agostino nel suo De Civitate Dei (XXII, 23), e alludono all’annuncio del Messia e dell’Apocalisse, mentre la precedente è ripresa dalla quarta egloga delle Bucoliche di Virgilio (IV, 5-7), considerata dalla tradizione cristiana profetica della venuta di Cristo. Il messaggio esoterico, coltissimo e certamente dettato da specifiche richieste di committenza, ammanta così questo quadro di un fascino particolare e fuori dal comune.
Sul piano formale, l’analisi delle singole figure rende subito evidente la meditazione di Pellegrino sui modelli michelangioleschi, che spaziano dagli affreschi della Cappella Sistina al Mosè di San Pietro in Vincoli fino ai gruppi scultorei delle Cappelle Medicee di San Lorenzo a Firenze. Il giovane artista si mostrò in questo senso estremamente ricettivo e non solo attento allo studio delle anatomie dei corpi, ma in grado al contempo di far proprio il dinamismo spaziale di Buonarroti, ricomponendo autonomamente molteplici spunti, non senza nuove trovate ideative (cfr. Daniele 2023).
Sono noti diversi disegni preparatori per il dipinto Borghese: quattro si trovano al British Museum di Londra e uno presso il Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi (Gere 1962). Si tratta, nel caso degli esemplari inglesi, di studi per la Sibilla (inv. Pp 2.187) e per il giovane seduto accanto alla Vergine (inv. 1963,0420.4), e di due frammenti di cartone da riporto per il polpaccio e il piede di quest’ultimo (inv. 1962,0714.2) e per il dettaglio del volto, con una parte di spalle e una mano, della figura con copricapo disposta sul margine destro della composizione (inv. 1962,0714.3). La porzione di cartone fiorentino (inv. 13859F) è invece relativa al gruppo centrale della Vergine con il Bambino e san Giuseppe e documenta la prima idea della mano di quest’ultimo personaggio, modificata nella versione finale su cui ancora si intravede il pentimento. Esistono inoltre almeno tre copie del quadro, tutte di dimensioni analoghe a quelle del prototipo ma prive delle iscrizioni (Liechtenstein Collections di Vaduz-Vienna, inv. GE14, tela; Galleria Nazionale di Parma, inv. GN215, tavola; Pinacoteca Nazionale di Bologna, inv. 723, tela, qualitativamente più debole rispetto alle altre due; Daniele 2023).
Giulia Daniele