La tavola, di buona qualità, entra probabilmente in collezione nel 1787, in seguito alla concessione, da parte del principe Marcantonio IV Borghese, di un vitalizio a Bartolomeo Cavaceppi. Nel tempo subisce una serie di attribuzioni tutte all’interno dell’ambito toscano. In questa sede si propone il nome di Domenico Puligo quale autore del dipinto.
Roma, Collezione Borghese, lascito Bartolomeo Cavaceppi 1787; Inventario 1790, Stanza VIII, n. 15; Inventario Fidecommissario Borghese 1833, p. 19. Acquisto dello Stato, 1902.
In assenza di altre informazioni rimane solo ipotetica la proposta di Della Pergola di identificare il dipinto con la «Madonna di Baldassar Peruzzi» menzionata nel 1787, quando entra a far parte della collezione di Marcantonio IV Borghese attraverso il lascito di Bartolomeo Cavaceppi (Della Pergola 1955, p. 37). Poco dopo il dipinto è elencato nell’Inventario del 1790 sempre come opera di Peruzzi e come tale registrato fino alla schedatura di Piancastelli (1891). Successivamente da Adolfo Venturi la tavola è pubblicata come “scuola di Bartolomeo della Porta” (1893, p.154). Nelle Note al Catalogo del 1893 Cantalamessa rifiutava la proposta, tanto da non volerne riconoscere la matrice fiorentina (Della Pergola ivi, p. 37). Successivamente Berenson ne propose un accostamento a Domenico Beccafumi (1936, p. 57), mentre Longhi inserisce il dipinto “nella cerchia del Granacci e di Ridolfo” (1928, p. 205). Prudentemente Della Pergola rimanda il dipinto ad un generico “Maestro toscano”, vedendovi pur sempre un “certo carattere senese” (Della Pergola 1955, p. 37). In occasione della presente schedatura si è voluto proporre il nome di Domenico Puligo (Domenico Ubaldini), pittore proveniente dalla bottega di Ridolfo del Ghirlandaio, ma il cui debito principale è verso le soluzioni di Andrea del Sarto, di cui divenne allievo e amico. Della sua maniera Vasari scrive che il suo “fare a poco a poco sfuggire i lontani, come velati da una certa nebbia, dava rilievo e grazia alle sue pitture, e che se bene i contorni delle figure che faceva si andavano perdendo, in modo che occultando gl’errori non si potevano vedere ne’ fondi dove erano terminate le figure” (1568, p. 104). In questa composizione sono evidenti alcune delle caratteristiche descritte dal biografo aretino: muovendo i passi dai modelli di Raffaello, Ridolfo del Ghirlandaio e Andrea del Sarto, nella fase matura assume toni di mercantile serialità, rendendo difficile distinguere l’intervento della bottega. Il nome di Puligo è stato proposto già dalla restauratrice Laura Cibrario, che ha avuto modo di studiare l’opera in occasione dell’ultimo intervento sul dipinto (2019). Come spesso avviene, la mancata pubblicazione della relazione di restauro ne ha impedito il riconoscimento dei meriti. A sostegno dell’attribuzione si pone anche la scheda all’interno della Fototeca Zeri, dove il dipinto è registrato come opera di Puligo, segnalazione ignorata nella monografia sull’artista. La stessa Cibrario rileva a sostegno dell’identificazione tangenze significative con altre opere autografe. Le analogie principali si riscontrano nell’impostazione reclinata della testa della Vergine, che trova confronti stringenti in quella della Sacra famiglia della Galleria Palatina (Inv.1912 n.294), nella Vergine con Bambino, san Quirito e san Placido del John and Mable Ringling Museum di Sarasota, oltre che nella versione di recente rinvenimento sul mercato antiquario di proprietà di Trinity Fine Art. Altri elementi comuni alla produzione di Puligo sono le dita affusolate del Bambino, il piccolo paesaggio sulla destra della Vergine che trova analogie con quelli presenti nei dipinti di Monaco, il volto di san Giovannino, che ha un suo gemello in una tavola di ignota ubicazione, ascritta dubitativamente al Puligo all’interno della Fototeca Zeri.
Oltre all’inclinazione del volto di Maria, è da segnalare la porzione messa in ombra del viso e dell’arco sopraccigliare, acuito dalla canna nasale stretta e lunga, oltre alla resa scorciata della mano che sostiene il Bambino. La luce quasi zenitale crea una piccola ombra di forma quasi triangolare, che trova un richiamo in quella generata dal labbro inferiore della bocca. Un certo carattere di “grazia artificiosa e vuota” sembra tuttavia dominare la composizione, così da favorire l’inserimento della tavola in quel periodo che da Adolfo Venturi è definito “la decadenza di Puligo", corrispondente all’ultima fase della produzione dell’artista con un largo intervento della bottega (Venturi id., p. 154). Il tono grave con cui è rimarcato il profilo della Vergine è incrementato dal chiaroscuro deciso a far emergere solo alcune parti messe scenograficamente in luce, in cui i volti tondeggianti distinguono la realizzazione dell’opera rispetto a quella di altri contemporanei, primo fra tutti Andrea del Brescianino, pittore col quale Puligo condivide l’attribuzione di alcune opere.
Fabrizio Carinci