La tavola è firmata "Ventura Salim / beni", iscrizione riapparsa nel 1936 a seguito di un restauro. Negli inventari settecenteschi compariva sotto il nome di Federico Barocci, attribuzione rimasta valida fino alla fine dell'Ottocento. La composizione si ispira a Raffaello, importante riferimento culturale del Salimbeni nell’ultimo decennio del Cinquecento, quando il pittore si trova a Roma.
Roma, Collezione Borghese, citato nell’inv. 1790; Inventario Fidecommissario Borghese 1833, p. 28. Acquisto dello Stato, 1902.
In basso a sinistra su una roccia: ‘VENTURA SALIM/BENI’
Retro: ‘Sig.r Cardinale’; ‘46’
La scritta sul retro della tavola riconduce ad una proprietà e ad un inventario finora non identificati. L’opera è segnalata per la prima volta nella collezione Borghese solo nel 1790 quale ‘Madonnina’ di Barocci. Come tale, attraverso il Fidecommisso, arriva fino alla schedatura di Piancastelli (1891, p. 330). Accostamento non peregrino, come correttamente messo in luce da Herrmann Fiore, in quanto determinato soprattutto dagli elementi propri della composizione.
Protagonista della scena è il gesto quotidiano ed esigente del Bambino che con le mani tese e le gote rosse cerca di prendere il latte dal seno materno. Nonostante il gruppo occupi la parte centrale della scena, una parte rilevante è garantita al paesaggio stesso che domina lo sfondo della composizione.
Il dipinto è considerato una traduzione di un’opera, grafica o pittorica di Raffaello, non più conservata. Fondamentale in tal senso è la menzione vasariana di un’opera dipinta per «alcuni gentiluomini sanesi», lasciata incompiuta poco prima del trasferimento a Roma nel 1508, poi ultimata nella parte del panneggio da Ridolfo Ghirlandaio (Vasari, ed. Milanesi, IV, p. 328). Secondo Venturi, seguito da Della Pergola, il dipinto di Salimbeni sarebbe derivante dal disegno ritenuto autografo di Raffaello conservato al Louvre (inv. 3859, Recto). Direttamente derivante dal dipinto dell’Urbinate lo vogliono invece Riedl, Ferino, Cordellier e Py (D. Cordellier e B. Py, 1992, pp. 116-119). A sostegno della proposta di Venturi sarebbe, secondo la Herrmann Fiore, la ripresa del gesto da parte della Vergine di sorreggere la testa del neonato durante l’allattamento, appena accennato nel disegno parigino, ma chiaramente espresso nell’opera in collezione Borghese. L’invenzione raffaellesca è stata ripresa anche da un dipinto già in collezione Fesh e attualmente in collezione D.G. van Beuningen a Rotterdam, in cui un ruolo diverso e di minor significato allegorico è riservato al paesaggio e al gesto della mano della Vergine, così come per il dipinto della collezione Vermeheren dell’Aja, già segnalato da Paola Della Pergola (1959, p. 52).
Oltre a queste sono da riferire allo stesso modello compositivo la versione del Museo Bonnat di Bayonne e il gruppo di disegni di Chantilly. Da Herrmann Fiore sono inoltre sottolineate le varianti presenti nella copia in oggetto, in cui sono addolciti i gesti e i chiaroscuri, oltre agli elementi del paesaggio e dell’intera composizione. Elementi, questi, propri della pittura tardo manierista e che hanno così favorito un avvicinamento dell’opera al nome di Barocci negli inventari tra XVIII e XIX secolo (Herrmann Fiore 1992, p. 250). Diversamente Venturi presentava il dipinto quale opera della ‘Scuola di Carracci’, pur riconoscendone «l’esatta riproduzione di un disegno del Louvre attribuito a Raffaello» (Venturi 1893, p. 158). Intuizione di Longhi fu invece quella di riconoscere nel 1928 come «il traduttore in pittura è stato, palesemente, Ventura Salimbeni» (Longhi 1928, p. 207, n. 314). Proposta confermata qualche anno più tardi (1936) dalla pulitura del dipinto ad opera di Carlo Matteucci, che rivelò la firma dell’artista senese nella parte inferiore della tavola.
Fabrizio Carinci