La scultura raffigura l’allegoria del Sonno, ispirandosi a un tipo ellenistico molto noto nel XVII e XVIII secolo, da cui derivano gli attributi del putto: le ali di farfalla, le capsule di papavero sulla testa e nelle mani e il ghiro dormiente al lato.
Il Passeri raccontava che a Roma si insinuasse che Algardi non fosse capace di lavorare il marmo (materiale scarsamente diffuso a Bologna, sua città di origine), e che questa diceria avesse spinto lo scultore a cimentarsi con la pietra di paragone. L’aneddoto, poco veritiero dal momento che, quando realizzò il Sonno, Algardi aveva già ricevuto incarichi per importanti sculture marmoree, ha comunque accompagnato la scultura nei secoli.
Più che per dimostrare abilità tecnica, notizia confutata peraltro dalla morbidezza del marmo nero del Belgio con cui è in realtà eseguita, la scelta del materiale era dovuta alla volontà di Algardi di aderire meglio al soggetto “notturno” dell’opera.
I documenti di pagamento attestano che l’opera fu commissionata ad Alessandro Algardi nel 1635 dal principe Marcantonio Borghese, nipote ed erede del Cardinale Scipione, e che lo scultore disegnò anche due anfore con manici serpentiformi, intagliate in marmo nero da Silvio Calci, che all’epoca accompagnavano la scultura.
In questa languida scultura Alessandro Algardi rappresenta il Sonno attraverso l’abbandono di un putto dormiente, identificato dalle ali di farfalla, da un serto di capsule di papaveri attorno al capo, da un ramoscello della stessa pianta nella mano sinistra e da un ghiro dormiente lungo il fianco. Ispirato a un prototipo ellenistico molto diffuso nel Seicento, il putto dormiente, abbandonato mollemente su un lenzuolo, ha gli attributi iconografici propri delle raffigurazioni antiche dell’Hypnos greco o del Somnus romano: le ali, che battono senza far rumore (come le ali di farfalla della scultura), e i fiori di papavero con cui vengono sfiorati gli occhi degli uomini, inducendo l’oblio. Nell’età classica il Sonno era raffigurato come un ragazzo, ma nel periodo ellenistico invalse la raffigurazione come putto, che si è affermata nei secoli.
Tramite per la commissione ad Algardi della scultura del Sonno fu Marcello Provenzale, il mosaicista suo conterraneo che aveva già lavorato per Scipione Borghese. Esistono due documenti di pagamento allo scultore datati 1635 e 1636 “a bon conto del lavoro di un Putto in pietra di paragone”, firmati da Marcantonio Borghese, cugino ed erede del cardinale Scipione, che era morto due anni prima (Montagu 1985, p. 419).
Il biografo Giovanni Battista Passeri ipotizzava che Algardi avesse eseguito l’opera in marmo nero del Belgio (da lui indicato impropriamente come pietra di paragone, materiale noto per essere particolarmente difficile da lavorare), per sfatare la maldicenza che lo voleva incapace di scolpire il marmo: “Per ismentire questa ingiuria fece la figura d’un Putto, che dorme il quale rappresenta il Sonno in pietra di paragone grande poco più del naturale, et è così ben condotto, e lavorato, che non trovò nell’applauso dell’Universale che cagioni di lode” (1772, p. 200).
Il marmo nero era stato scelto anche per rafforzare il significato dell’allegoria: nera è infatti la terza fase della notte, come viene descritta nell’Iconologia di Cesare Ripa, ed è accompagnata da un ghiro, come quello che vediamo acciambellato accanto al putto. L’opera esprime piacevolezza, ma anche ambiguità e languore nell’abbandono totale del dormiente che stringe le capsule cariche di oppio.
Algardi disegnò anche due anfore, intagliate in marmo nero da Silvio Calci, che all’epoca accompagnavano la scultura. In virtù di questa collocazione accanto al Sonno, nel Settecento l’archeologo de Montfaucon pensò fossero attributi della personificazione, descrivendole come vasi contenenti sostanze soporifere (1722, I, 2, p. 362).
Il sonno ben si inserisce nella produzione di Algardi, improntata a un classicismo mitigato dal gusto per il naturale e da moderati elementi barocchi, uno stile diverso rispetto a quello imperante di Gian Lorenzo Bernini e che trovò spazio soprattutto durante il pontificato di Innocenzo X Pamphilj, che lo preferì, incaricandolo di importanti lavori.
L’importanza fin da subito riconosciuta all’opera è testimoniata dall’omaggio resogli in un’ode di Scipione della Staffa, pubblicata a Perugia nel 1643, e dalla diffusione del soggetto: alla Galleria Spada ne è conservata una copia in marmo bianco, in cui il putto è in una culla lignea, mentre a Boston e Amburgo sono due imitazioni con leggere varianti di Jacques van der Bogaert (Montagu 1999, pp. 118).
In occasione dei lavori di ridecorazione e riallestimento delle collezioni, guidati da Antonio Asprucci alla fine del Settecento, il Sonno fu collocato nella sala del Gladiatore al piano terra. Passò poi nel corso dell’Ottocento dapprima in sala III, poi nella galleria del primo piano. Attualmente è esposto nella sala XV, ricongiunto con i vasi di Silvio Calci.
La scultura mostra una frattura all'altezza della spalla sinistra che attraversa tutto il marmo; apparentemente antica, è stata riparata con una grappa metallica posta sotto la schiena del putto.
Sonja Felici