Il piccolo rame di formato ovale, proveniente dalla collezione del cardinale Scipione Borghese, risulta esposto nel 1650 nella Villa a Porta Pinciana, ma già nel 1683 risulta trasferito nel palazzo Borghese a Campo Marzio, per poi tornare nella Villa nel corso del Settecento.
La composizione è impostata sulla figura del santo al centro della scena, inginocchiato in attesa del supplizio, il quale è circondato da due figure femminili a sinistra, forse identificabili con Erodiade e Salomè, e tre maschili sulla destra, il carnefice in atto di sguainare la spada e altri due soldati.
Nel piccolo rame rappresentante la Decollazione del Battista, la scena è organizzata secondo uno schema compositivo simmetrico: in primo piano è raffigurato il santo in ginocchio, con le braccia piegate in avanti, in attesa di essere giustiziato; le due donne che assistono alla scena, rappresentate sulla sinistra della composizione, sono state identificate con Salomè ed Erodiade; a destra compaiono il carnefice nell’atto di sguainare la spada e, dietro di lui, altri due soldati di Erode.
La provenienza di quest’opera è indeterminata e non risulta, come altre opere dello stesso pittore presenti in Galleria, nell’inventario dei beni sequestrati al Cesari dal fiscale di Paolo V nel 1607. Il dipinto è menzionato per la prima volta nella guida di Villa Borghese di Manilli (1650, p. 104), dove è così descritto: “il quadretto ovato di S. Gio. Battista al supplizio, è del Cavalier Giuseppe”.
Questa citazione suggerisce il precoce ingresso dell’opera nella raccolta del cardinal Scipione Borghese. Nel successivo inventario del 1693 è elencato “un quadro di un palmo e mezzo in circa in rame ovato con S. Gio quando vogliono tagliargli la testa del n. 170, cornice dorata del Martiniani”. Le dimensioni, il supporto, il formato e la descrizione consentono la sicura identificazione con l’opera in esame, dove inoltre è iscritto, in basso a sinistra, proprio il numero 170 di cui all’inventario citato. L’assegnazione al Martiniani, autore non identificato al quale in quello stesso inventario sono ascritte diverse pitture, tra cui anche un altro San Giovanni Battista (in realtà anch’esso opera del Cesari, tuttora nella raccolta Borghese, inv. 229), è l’unico elemento che non trova conferma. Eventuali dubbi dovrebbero essere fugati dalla citazione dell’opera nella guida di De Sebastiani (1683, p.25), “S. Gio: Battista ovato dell’Arpini”, esistente nel palazzo Borghese a Campo Marzio, dove il dipinto dovette essere trasferito nei decenni successivi alla stesura del testo di Manilli. L’attribuzione al Cesari torna negli inventari del Settecento e dell’Ottocento, mentre alcuni studiosi hanno messo in dubbio la paternità dell’arpinate, optando per un seguace (Longhi 1928, p. 205; De Rinaldis 1937, p. 225). Paola Della Pergola (1959, p. 64) ha catalogato il dipinto come autografo e, sulla base di un presunto influsso della pittura caravaggesca (in particolare l’impostazione della figura del carnefice e la proiezione della luce dall’inferriata in alto), ha proposto una datazione successiva alla Madonna dei Palafrenieri e alla Vocazione di San Matteo di Caravaggio, riconducendo il piccolo rame del Cesari al primo decennio del Seicento.
Dello stesso avviso la critica successiva, che ha tra l’altro proposto un accostamento dell’opera con la Giuditta che decapita Oloferne di Giovanni Baglione nella collezione Borghese (inv. 15), per l’uso di adornare con ricami e pietre preziose l’abbigliamento e le acconciature femminili, aspetto che confermerebbe la datazione proposta da Della Pergola.
Tuttavia Herwarth Röttgen,pur essendo d’accordo sull’attribuzione al Cavalier d’Arpino, nega un qualunque tipo di influsso caravaggesco e, per mezzo di precisi confronti con la produzione autografa dell’arpinate, propone una datazione al 1630 circa.
Pier Ludovico Puddu