Il dipinto, così come la Battaglia di Tullio Ostilio contro i Veienti, la Cattura di Cristo, il Calvario e la Venere incoronata da Amore, proviene verosimilmente dal sequestro, ordinato da Paolo V nel 1607, delle opere esistenti nello studio del Cavalier d’Arpino. Si tratta di una pittura di piccole dimensioni a tema religioso, dove il santo e l’agnello che si abbevera alla fonte in primo piano sono armoniosamente inseriti in un luminoso paesaggio dai toni chiari, importante esempio della pittura paesistica del Cesari all’inizio del Seicento.
La prima sicura menzione di questo olio su lavagna è nell’inventario Borghese del 1693, dove figura con una descrizione molto precisa, ma erroneamente attribuito, come “quadretto di un palmo e mezzo in circa in lavagna con S. Gio. Batta. che piglia l’acqua da uno Scoglio et un’Agnello del No 170. Cornice dorata del Martiniani”. Il numero 170 citato nell’inventario è tuttora riscontrabile sul dipinto (in basso a destra), elemento che insieme alle dimensioni e al supporto ne consente la sicura identificazione. La critica ritiene che l’opera corrisponda a quella elencata nell’inventario del 1607 – relativo al sequestro dei beni appartenenti al Cavalier d’Arpino, punito per volere di Paolo V a seguito dell’accusa di detenzione illecita di armi – dove compare un “quadretto de paesi con San Giovanni”. In tal caso, grazie alla donazione dello zio pontefice, il dipinto sarebbe giunto nelle mani del cardinale Scipione Borghese insieme ad altre 104 opere, molte delle quali ancora presenti in Galleria Borghese, tra cui cinque di mano dello stesso Cavalier d’Arpino o riferite al suo ambito. Oltre al possibile riconoscimento del quadro nell’inventario del 1607, è stata proposta anche la sua identificazione con la pittura menzionata nella guida di Jacomo Manilli (1650, p. 115) come “San Giovanni nel Deserto, è del Cavaliere [Paolo] Guidotti” (Della Pergola 1959, p. 62). La medesima attribuzione al Guidotti si ritrova nell’inventario del cardinale Borghese già datato tra il 1615 e il 1630 (oggi ritenuto del 1633 circa), da cui probabilmente Manilli attinge, e dal quale si apprendono le dimensioni del quadro, compatibili con quelle dell’opera in esame: “quadretto di san Giovanni, alto 1 1/2 largo 1 1/4 cornice dorata. Guidotti”. Questa corrispondenza consentirebbe di collegare il San Giovanni direttamente al cardinal Scipione e quindi di sostenerne la provenienza dal sequestro di cui sopra. Tuttavia, in mancanza di ulteriori elementi, l’effettiva provenienza resta incerta.
L’unico inventario in cui si ritrova la corretta attribuzione al Cavalier d’Arpino è quello fidecommissario del 1833, mentre sul piano storico-critico va notato che Roberto Longhi (1928, p. 198) ascrive autonomamente l’opera al Cesari su base stilistica nonostante il fraintendimento attributivo risultante dai documenti e da un antico scambio di cartellini con il San Giovanni Battista di Simone Cantarini (inv. 357, cfr. Della Pergola 1959, p. 62), questioni che hanno causato una certa confusione sulla paternità del dipinto. Sebbene il parere di Longhi sia stato accolto sia da Adolfo Venturi (1932, p. 939), sia da Paola Della Pergola (cit.), l’opera non è stata inclusa nella mostra sul Cavalier d’Arpino del 1973 e ancora nel 2000 è stata esposta alla mostra bergamasca Caravaggio. La luce nella pittura lombarda con una solo ipotetica attribuzione al Cesari (Macioce 2000, p. 194). In quell’occasione, nel dipinto viene rilevata una certa rigidità del panneggio del santo e una corsività nel ductus pittorico assimilabili al metodo compilatorio con cui Bernardino Cesari utilizzava le invenzioni del fratello, tanto che viene ipotizzato che il quadretto possa essere ricondotto alla mano dello stesso Bernardino. Solo in seguito Herwarth Röttgen (2002, p. 369) include il dipinto nel catalogo del maggiore dei fratelli, notando nel volto efebico del protagonista una stringente somiglianza con altri volti femminili certamente autografi, come ad esempio quello di Europa nel quadro Borghese (inv. 378) e quello della moglie di Putifarre nella tavola di provenienza Ludovisi, ora in collezione privata.
Ritenuto un bell’esempio della pittura paesistica del Cavalier d’Arpino, il dipinto si inserisce senza dubbio nel periodo delle sue opere mitologico-erotiche ed è quindi databile tra il 1603 e il 1606, poco prima della confisca voluta da Paolo V.
Pier Ludovico Puddu