Il dipinto fu eseguito da Giovanni Baglione nel 1608, come dimostrano le note di pagamento tuttora conservate tra i documenti del Fondo Borghese presso l’Archivio Segreto Vaticano. L’opera potrebbe essere stata commissionata dal cardinale Scipione o dallo zio Giovanni Battista, fratello di papa Paolo V.
La scena è incentrata sul momento immediatamente successivo alla decapitazione di Oloferne da parte di Giuditta, mentre quest’ultima sta riponendo la testa mozzata del terribile comandante nella bisaccia di un’anziana serva d’ispirazione caravaggesca. Il contrasto luministico tra la penombra che avvolge il corpo esanime di Oloferne e la luce piena che investe Giuditta esalta il ruolo morale di quest’ultima come salvatrice del suo popolo.
Salvator Rosa cm. 260 x 189 x 10
Collezione Scipione Borghese, 1608; Inventario Fidecommissario Borghese 1833, p. 18, n. 41. Acquisto dello Stato, 1902.
La storia del dipinto rappresentante Giuditta e Oloferne è stata ricostruita a partire da alcune importanti testimonianze documentarie. Grazie ai mandati di pagamento conservati nel Fondo Borghese presso l’Archivio Segreto Vaticano (Guglielmi 1954, pp. 316, 325; Della Pergola 1959, p. 215, n. 46), è infatti noto che Giovanni Baglione eseguì l’opera per la ricca e potente famiglia nel 1608. Nel documento datato 2 maggio di tale anno, dove il “Quadro di Pittura con l’istoria di Juditta” è valutato “scudi 100 Moneta”, compare il nome di Giovanni Battista Borghese, fratello del pontefice e possibile committente del quadro. Ugualmente valida, a questa data, è l’eventualità che il dipinto fosse stato ordinato dal cardinal nepote, il quale risulta in ogni caso proprietario dell’intera quadreria di famiglia descritta nel poemetto redatto da Scipione Francucci nel 1613 (st. 164-181), dove la Giuditta compare in una sorta di raggruppamento tematico insieme a David con la testa di Golia di Caravaggio (inv. 455) e a Giuseppe e alla moglie di Putifarre di Cigoli (inv. 14). Nell’ambito della collezione questi tre soggetti drammatici, tutti incentrati sulle virtù veterotestamentarie, contribuivano alla realizzazione di uno specifico programma decorativo (Herrmann Fiore 1985, p. IX; Macioce 2002, pp. XXII).
L’opera è ricordata nella guida della Villa Pinciana di Jacopo Manilli (1650, p. 60) e in quella successiva di Domenico Montelatici (1700, p. 205), sempre con la corretta attribuzione al pittore romano, ma è curiosamente descritta come di autore incognito nell’inventario fidecommissario del 1833.
La paternità del dipinto è ristabilita alla fine del secolo da Adolfo Venturi (1893, p. 29), il quale esprime un giudizio severo sull’opera, definendola come un vano tentativo di imitazione del Caravaggio da parte del suo rivale Baglione.
Giuditta e Oloferne potrebbe essere stato il primo dipinto dell’artista ad entrare nella raccolta Borghese (comprensiva anche dell’Estasi di San Francesco, oggi non più presente, e del Cristo in meditazione sulla passione, inv. 321), circostanza ad oggi non del tutto chiarita. Certo è che nel 1608 l’artista godesse già di ampia fama, avendo portato a termine prestigiosi incarichi pubblici sia a Roma che fuori, e senza dubbio incontrasse il favore di Scipione Borghese, il quale di lì a poco lo avrebbe coinvolto nella decorazione della cappella di famiglia in Santa Maria Maggiore (1610-1612. Cfr. Nicolaci 2021, pp. 130).
La scena è impostata sul personaggio centrale di Giuditta, rappresentata a figura intera, nell’atto di riporre la testa mozzata di Oloferne nella bisaccia tenuta dall’ancella Abra alla sua sinistra. Quest’ultima è colta di profilo, mentre rivolge lo sguardo atterrito verso il comandante riverso nella parte opposta del dipinto, il cui corpo esanime trasmette ancora il senso dell’agonia. Il dipinto è interamente giocato sul contrasto, in primo luogo luministico, tra la penombra che avvolge la figura di Oloferne sotto la tenda e la luce piena che investe Giuditta, nuda nella parte superiore del corpo; ma anche tra le sembianze graziose dell’eroina e la violenta espressione rimasta impressa sul volto del guerriero di gigantesche proporzioni, tra la bellezza e la brutalità, tra la quiete e la tensione. In questo modo il pittore non solo accentua la drammaticità del racconto ma ne amplifica il senso stesso, sottolineando la virtù morale di Giuditta e il suo ruolo di salvatrice del popolo (Macioce 2002, p. XXIII; Ead. 2010, p. 302; O’Neil 2002, p. 105; Nicolaci cit.).
La presenza di un’anziana fantesca, che nel racconto veterotestamentario è in realtà una giovane donna, può indurre a ritenere che Baglione conoscesse la tela di stesso soggetto eseguita pochi anni prima da Caravaggio per il banchiere Ottavio Costa, oggi conservata nella Galleria Nazionale d’Arte Antica di Palazzo Barberini a Roma. Proprio come nel dipinto di Merisi, infatti, qui la donna è rappresentata di profilo, con il volto solcato da rughe profonde e caratterizzato da un’espressione di forte sgomento di fronte al gesto cruento compiuto da Giuditta. La scelta di rappresentare l’ancella come una donna anziana contribuisce ad esaltare la giovinezza e il candore della protagonista dal volto angelico e dai boccoli dorati (Nicolaci cit.).
Se la figura della fantesca è caratterizzata da uno spiccato naturalismo di stampo caravaggesco, quella di Giuditta conserva una gestualità manierata, segno distintivo dei modi di Baglione, in una armoniosa compresenza di stili e modelli che testimonia la straordinaria abilità eclettica del pittore. Alcuni elementi, quali la resa naturalistica dell’ancella e il forte contrasto chiaroscurale, rivelano l’impatto della lezione caravaggesca sull’opera di Baglione, tuttavia non si tratta di un’adesione programmatica da parte di quest’ultimo, come dimostra anche la scelta di rappresentare il momento immediatamente successivo all’uccisione di Oloferne, e non già quello più drammatico della decapitazione stessa, come avviene appunto nel dipinto Costa.
In relazione alla Giuditta Borghese si conservano due studi preparatori, rispettivamente in collezione Schiff a New York e presso il Louvre di Parigi (Nicolaci 2020, pp. 149-150; Id. 2021, p. 132).
Pier Ludovico Puddu