Il dipinto, entrato in collezione Borghese nel 1819, fu acquistato dal principe Camillo Borghese sul mercato antiquario. Attribuito nell'Ottocento a Pieter Paul Rubens, il quadro ha rivelato, dopo la pulitura, la firma di Marten Mandekens, allievo poco noto di Hendrick van Balen il Vecchio, attivo ad Anversa nella prima metà del Seicento. Molto vicino a Rubens, in quest'opera l’artista fiammingo raffigura la Vergine Maria che, dopo aver ricevuto l'annuncio della nascita di Gesù, fa visita alla sua parente Elisabetta, anch'essa incinta di Giovanni Battista. La scena, narrata nel Vangelo di Luca (Lc 1, 40-45), è qui traslata in epoca moderna come dimostrano le figure abbigliate secondo la moda del tempo.
Salvator Rosa cm 118,2 x 96 x 7
Roma, acquisto di Camillo Borghese, 11 agosto 1819 (G. Piancastelli in Arch. Gall. Borgh. AIV-4; ora in Tarissi De Jacobis 2003); Inventario Fidecommissario Borghese 1833, p. 22. Acquisto dello Stato, 1902.
Firmato e datato: "M. MANDEKENS. ANTWERPIAE INVENIT (A)C. FECIT. 1638."
Come si apprende da una nota manoscritta di Giovanni Piancastelli (in Archivio Galleria Borghese AIV-4; ora in Tarissi De Jacobis 2003), questo dipinto entrò in casa Borghese nel 1819, anno in cui il principe Camillo lo acquistò per la propria collezione sul mercato antiquario. Attribuito a Pieter Paul Rubens (Inv. Fid. 1833), fu ritenuto da Marcel Reymond (1891) una sorta di prima versione dello sportello della Deposizione della cattedrale di Anversa eseguita dal noto Maestro; pista seguita, seppur con qualche riserva, da Adolfo Venturi che, datando l'opera al 1610, la giudicò una composizione 'più semplice' del quadro anversese (Venturi 1893).
Di diverso parere furono invece sia il Platner (1842), che pubblicò il dipinto Borghese come copia di un quadro di Rubens, sia Roberto Longhi (1928), che dal canto suo respinse senz'alcun dubbio la paternità rubensiana; giudizi tuttavia rigettati dal Rosenberg (1905) e dal Vanzype (1926) i quali, confermando l'attribuzione al fiammingo, collocarono variamente la tavola al 1598-1600 (Vanzype 1926) e al 1606-08 (Rosenberg 1905). A porre fine a questa diatriba fu un restauro del 1946 quando, in seguito a una meticolosa pulitura, Carlo Matteucci mise in luce la data e la firma, quest'ultima letta però in maniera errata ('M. VAN DEN END(EN) INV. ET PIN. ANT/VERPIAE 1638.'; cfr. Hoogerwerff 1942-1943). Se nessun dubbio, infatti, nacque intorno alla sua data di esecuzione, di contro diversi furono i tentativi di interpretare la firma dell'autore, sciolta da alcuni in favore dell'incisore Maarten van den Enden (Hoogerwerff 1942-1943), da altri in direzione di Theodor van Thulden (Glück 1933). Tuttavia, fu solo nel 1959, quando dopo un'attenta lettura Paola della Pergola (1959) individuò debitamamente il pittore, ossia Marten Mandekens, un allievo poco noto di Hendrick van Balen il Vecchio, attivo ad Anversa a partire dagli anni Trenta del Seicento. Tale ipotesi, accettata da tutta la critica successiva (C. Stefani in Galleria Borghese 2000; Herrmann Fiore 2006), è qui condivisa.
Antonio Iommelli