Il dipinto, di provenienza indeterminata, è identificabile negli inventari Borghese solo a partire da quello fidecommissario del 1833, dove è citato come opera di ignoto. La sua attribuzione a Gaspare Celio si deve a Roberto Longhi, che per primo si accorse della presenza della firma in basso a destra della composizione: “GASPARE CELIO DEL HABITO DI CRISTO”. Il riferimento all’appartenenza dell’artista all’ordine religioso fornisce un termine cronologico per l’esecuzione dell’opera, certamente posteriore alla sua investitura avvenuta nel 1613. Il soggetto, identificabile con la Battaglia di Furio Camillo, è invece ricavabile da una seconda iscrizione presente sullo stendardo in alto a destra.
Salvator Rosa (cm 76 x 160,5 x 7,5)
Inventario Fidecommissario Borghese 1833, p. 18, n. 40. Acquisto dello Stato, 1902.
Il dipinto rappresenta la Battaglia di Furio Camillo, come suggerito dall’iscrizione presente sullo stendardo in alto a destra della composizione: “S.P.Q.R./F. CAMIL./ R. DICTAT”. È impossibile stabilire a quale delle due celebri battaglie condotte dal generale romano, l’una contro i Galli, l’altra contro i Veienti, si riferisca la scena qui rappresentata.
L’opera è di provenienza indeterminata ed è rintracciabile negli inventari Borghese solo a partire dal 1833, quando compare nell’elenco fidecommissario con la seguente descrizione: “Una Battaglia, d’autore incognito, largo palmi 6 oncie 3, alto palmi 2, ½”. A quel tempo, la firma dell’autore presente nella parte inferiore della composizione doveva probabilmente risultare illegibile, e così ancora alla fine del secolo, quando Adolfo Venturi (1893, p. 168) propose di ricondurre il dipinto alla mano di Francesco Allegrini, allievo del Cavalier d’Arpino. L’iscrizione “GASPARE CELIO DEL HABITO DI CRISTO F…” fu riscoperta da Roberto Longhi (1928, p. 209), e con essa anche un sicuro termine cronologico per l’esecuzione dell’opera, certamente posteriore all’investitura a cavaliere ricevuta da Celio nel 1613. Un possibile riferimento alla Battaglia potrebbe essere contenuto nella Memoria redatta dall’artista nel 1620 e pubblicate nel 1638, dove sono menzionate, senza soggetto, alcune opere eseguite per il cardinale Borghese (Della Pergola 1959, p. 87; Melasecchi 1990, p. 290).
La scena si svolge a lume notturno, rischiarata solo dal fioco bagliore che preannuncia l’alba sullo sfondo a sinistra, e che arriva a riflettersi sui personaggi in primo piano, dove sono raffigurati vari gruppi di cavalieri in combattimento. Particolare risalto è dato ai due combattenti in posizione centrale, l’uno contraddistinto da un elmo col pennacchio, l’altro con una veste di colore rosso slavato, che lottano corpo a corpo.
Il vessillo rosso raffigurato dietro di loro contribuisce a focalizzare l’attenzione dello spettatore grazie al contrasto cromatico con i toni scuri dello sfondo, ed è forse una reminiscenza del perduto cartone della Battaglia di Anghiari di Leonardo da Vinci (Stefani 2000, p. 383)
Oltre il primo piano, il combattimento infuria a colpi di spade sullo sfondo di un paesaggio collinare in cui le curve dei pendii e le fronde della vegetazione si fondono con il cielo. Lo sfondo scuro, insieme al formato stretto e lungo della tavola, su cui la scena si sviluppa in senso orizzontale, sono elementi di ascendenza rinascimentale.
Il dipinto Borghese è esemplificativo del ruolo avuto da Celio nella definizione della battaglia come un vero e proprio genere pittorico a sé stante. Questo tipo di soggetti sono sempre stati praticati, come dimostrano diversi sarcofagi antichi ma anche esempi pittorici prodotti dal Trecento in avanti, in relazione ad esigenze celebrative, didattiche, allegoriche o più semplicemente decorative. In tutti questi casi, tuttavia, la rappresentazione non risponde a norme precise ma alla libera invenzione dell’autore, ed è solo a partire dal Seicento che la battaglia assume caratteristiche tali da potersi identificare come genere: in primo luogo una rappresentazione sic et simplicer, non legata ad uno specifico episodio storico nè, necessariamente, ad una particolare committenza, ma alimentata da una produzione di massa con finalità semplicemente decorativa. La struttura delle battaglie dipinte si fa via via più canonica, rispondendo ad un preciso registro compositivo che vede la scena farsi più complessa e arricchirsi di episodi secondari che si svolgono sui diversi piani (sull’argomento si veda Zeri 1986, pp. IX-XXVII).
Il dipinto di Celio rappresenta un motivo di transizione verso queste novità, dove è ancora presente l’allusione all’episodio storico ma solo tramite un piccolo accenno, così da risultare secondario rispetto alla rappresentazione della battaglia in sé. L’artista guarda all’affresco con la Battaglia di Tullo Ostilio dipinto dal Cavalier d’Arpino nel Palazzo dei Conservatori in Campidoglio (1597), che costituì, insieme alla Battaglia di Costantino in Vaticano, l’archetipo del genere battaglistico (Zeri cit., pp. IX-X; Melasecchi cit., pp. 290-291; Gandolfi 2018, pp. 132-133).
Pier Ludovico Puddu