Opera esemplare dell’uso della pietra paesina, così chiamata per le particolari venature naturali che mimano insiemi di edifici ricordando una veduta di paese o di città, il dipinto rappresenta la presa della città di Gerusalemme da parte dell’esercito cristiano. Il soggetto, tratto dalla Gerusalemme liberata di Torquato Tasso, è descritto in modo miniaturistico, con piccole vivaci figurine inserite nella scena in armonia con le figurazioni naturali prodotte dalla pietra. L’autore dell’opera, facente parte della collezione del cardinal Scipione, è ricordato sin dagli inventari tardo settecenteschi come Antonio Tempesta, artista specializzato nell’uso di tale tecnica.
Collezione Borghese, Inventario ante 1633, quarta stanza verso l'uccelliera, no. 44 (Corradini 1998, p. 450); Inventario 1693, XI stanza passata la galleria, n. 425 (Della Pergola 1965, p. 211); Inventario 1790, gabinetto; Inventario Fidecommissario Borghese 1833, gabinetto, p. 29 n. 67. Acquisto dello Stato, 1902.
L’impianto scenico di questa Presa di Gerusalemme è fortemente condizionato dall'aspetto naturale della pietra paesina: lo skyline della città, illuminato dalle zone chiare del supporto, è disegnato con grande precisione dalla pietra stessa e solo sporadicamente appaiono gli interventi pittorici dell'autore che aggiungono particolari descrittivi agli edifici, la cui altezza, in media di pochi centimetri, impone dimensioni quasi miniaturistiche alle figure. Le schiere dell'esercito cristiano, con vivaci cavalli e cavalieri che recano il vessillo con croce bianca in campo rosso, irrompono nella città, mentre alcuni fanti cercano di arrampicarsi sulle mura, da cui si affacciano i turchi che tentano di respingerli e, a sinistra, sventolano la bandiera con la mezza luna; in alto nel cielo è la divina apparizione di angeli armati di lunghe frecce che mettono in fuga, nell'angolo opposto, un gruppo di figurette diaboliche.
Per prima Herrmann Fiore ha riconosciuto questa pietra paesina nell'inventario, databile al 1633 circa, in cui si legge: «Un quadretto in pietra che mostra del naturale soldati che danno assalto d'una città cornice d'ebano intarsiata d'argento con otto pietre incastrate longo palmi [...] largo palmi [... ] (K. Herrmann Fiore 2001, p. 111, n. 4). All'epoca l'opera si trovava nella villa pinciana, nella quarta stanza verso l'uccelliera, e l'estensore dell'inventario, sebbene non ne indicasse l'autore, forniva tuttavia interessanti informazioni sulla preziosa cornice non più esistente. È invece Manilli, nel 1650, a ricordarla nell'appartamento a mezzogiorno della villa, pur senza avventurarsi nell'attribuzione: «In quello d'alabastro, dove la natura ha senza aiuto dell'arte formata una Città, si vede dipinta la presa dell'istessa Citta fatta à forza di un esercito Christiano contro i Turchi: et ha forse il Pittore voluto esprimere la presa di Gerusalemme, descritta dal Tasso». Il guardarobiere di Giovanni Battista Borghese rende quindi noto anche il soggetto dell'opera, forse già definito in un documento del 1644 conservato nell'Archivio Apostolico Vaticano e pubblicato da Collomb (2006a, p. 624 nota 913; 2012, p. 210 nota 5), se il dipinto, lì genericamente indicato come «Un quadro della città di Gerusalemme [...]», coincide con quello in esame. Proprio grazie alla descrizione della cornice contenuta nell'inventario del 1633 ante è possibile rintracciare La presa di Gerusalemme in quello del 1693: «un quadro di pietra che fa Paesi Naturali con cornice nera profilata e rabescata d'argento con pietre nelle Cantonate in mezzo alto di un palmo in c.a del N° 425. Incerto.» (Della Pergola 1965, p. 211, n. 631). È vero che l'indicazione del soggetto è alquanto vaga, ma tutte le altre informazioni coincidono con il dipinto in esame, compreso quel numero di inventario 425 ancora leggibile in basso a sinistra, erroneamente interpretato come 725 dalla critica recente, che di conseguenza escludeva l'identificazione della Presa con l'opera citata nell'inventario del 1693 (Lohff 2015, pp. 197-198, n. 5.1). Ancora nessuna menzione, invece, sull'autore; il nome del pittore fiorentino comparirà solo nell'inventario del 1790: «La presa di Gerusalemme da Goffredo, Antonio Tempesta» (De Rinaldis 1937, p, 228, n. 107). L’attribuzione sarà ripetuta nel fidecommesso del 1833 (Mariotti 1892, p. 90, n. 67) e nella letteratura dell'Ottocento, ma ignorata da Venturi, che preferirà assegnare l'opera a Pieter Brueghel, e da Longhi, che, senza condividere il parere di Venturi, la classificherà addirittura come priva di pregio e non meritevole di discussione. Viceversa, Della Pergola torna sul nome di Tempesta, basandosi su un confronto con altre due pietre paesine della collezione Borghese (cat. VI.3, Vl.4) con un'attribuzione antica al pittore toscano, sostenuta anche dalla critica successiva con l'eccezione di Leuschner (2005, p. 513) e di Lohff (2015, pp. 197-198, n. 5.1). In particolare, quest'ultima studiosa confronta la Presa di Gerusalemme Borghese con altre due pietre paesine (New York, collezione privata, e Milano, Fondazione Giulini Giannotti) di soggetto analogo, riferite a Filippo Napoletano (cfr. Chiarini 2007, p. 287, nn. 62 e 63), e ne osserva l'affine rappresentazione miniaturistica delle figure, così come il modo di utilizzare la superficie, con la pietra a far da protagonista, suggerendo infine di attribuire l'opera Borghese a un artista vicino a Filippo Napoletano, o a lui stesso.
Ma i caratteri evidenziati dalla studiosa sono propri anche di Tempesta, dotato di un naturalismo
calligrafico esercitato fin dai tempi fiorentini presso la bottega del fiammingo Jan van der Straet detto lo Stradano; avvezzo ai cambiamenti di dimensione e proporzioni, dagli affreschi alle incisioni, Antonio era esperto nell'adeguarsi alle dimensioni dei supporti e alle suggestioni offerte dalle venature delle pietre naturali, da cui in numerosi casi, come anche in questo, dipendono le soluzioni compositive. L’opera Borghese non è ripresa dalle serie di incisioni di Tempesta dedicate alla Gerusalemme liberata, ma il modo di comporre e descrivere le dinamiche figure, analogo a quello espresso dal pittore toscano nella vasta produzione grafica, conferma la prolificità di idee dell'artista. È comprensibile che Tempesta tornasse su un simile soggetto anche su un supporto particolare come la pietra paesina, da lui del resto ampiamente sperimentata, e bisogna pensare che in quegli anni, tra la fine del Cinquecento e il terzo decennio del Seicento, il poema tassiano godeva di un profondo apprezzamento, che si traduceva anche in rappresentazioni teatrali, come quella portata in scena nel 1612 presso il palazzo della Cancelleria, alla presenza di personalità illustri come il cardinale Scipione Borghese (Granata 2003, p. 39).
Emanuela Settimi