Il dipinto a olio su rame è elencato per la prima volta nell’Inventario della collezione Borghese del 1693 e resta a oggi sconosciuta la sua più antica provenienza. Grazie al restauro effettuato nel 1936 riemerse dalle ridipinture la firma «Leand. Bass.us F.», in basso sulla roccia a sinistra, confermando il riferimento all’artista veneto negli inventari del 1790 e del 1833.
Il gruppo figurativo, composto dal Cristo crocifisso sovrastato dalla colomba dello Spirito Santo con Dio Padre che regge la Croce, occupa il centro del dipinto e appare circondato da una nube animata da giovani angeli. Ai piedi della croce è raffigurato il teschio di Adamo su cui cola il sangue del Redentore. Nell’ambientazione, alla sinistra della Trinità vi sono una coppia di capanne ai margini di una boscaglia, mentre sulla destra nel paesaggio pianeggiante un fiume serpeggia di fianco alle mura di una città scorrendo sotto gli archi di un ponte. La veduta con le montagne cerulee sullo sfondo richiama le ambientazioni tipicamente venete dell’artista.
Anche se la critica non è concorde nel datare l’opera, iconograficamente la si fa derivare da due pale d’altare: una del Pordenone conservata nella sacrestia del Duomo di S. Daniele e l’altra di Jacopo Bassano nella parrocchia della SS. Trinità di Angarano.
Cornice dipinta a finto legno con cartelle dorate, incise e bulinate agli angoli e ai centri. Realizzata nella prima metà del XVII secolo e di origine marchigiana. cm 30 x 42 x 9
(?); Collezione Borghese, citata in Inventario, 1693, Stanza I, n. 12; Inventario, 1790, Stanza I, n. 10; Inventario Fidecommissario 1833, p. 15. Acquisto dello Stato, 1902.
Sulla roccia in basso a sinistra: «LEAN.BASS.US F.» in lettere capitali, a pennello, in latino
Data l’assenza di documenti relativi l’acquisizione dell’opera, la prima segnalazione che appare negli inventari della collezione Borghese risale al 1693 quando il dipinto veniva descritto come «Un quadro di grandezza simile (due palmi circa) in rame con il P[ad]re Eterno, e Giesù Cristo in croce del N° 27 con cornice dorata del Bassano». Anche se nell’Inventario del 1790 l’opera viene assegnata a Leandro, quartogenito di Jacopo Bassano, il dipinto fu successivamente assegnato all’altisonante nome di Leonardo da Vinci negli Inventari del Fidecommesso del 1833, probabilmente in seguito ad un lapsus calami del segretario nel trascrivere dagli inventari più antichi. Nel corso dell’Ottocento la critica non è stata concorde nell’attribuire l’opera ad uno dei Bassano a causa della firma leggibile solo in parte e per questo l’assegnava ai diversi esponenti della bottega dalpontiana: Ivan Lermolieff (1876, p. 135), pseudonimo di Giovanni Morelli, indicava il nome di Francesco Bassano ‘il giovane’ mentre Adolfo Venturi (1893, p. 96) assegnava nuovamente alla mano di Leandro Bassano l’opera al tempo esposta nella IIIa stanza al primo piano. Nel Catalogo della Galleria Borghese Venturi trascrisse la porzione visibile al tempo della firma, sottolineando con rammarico quanto le «nuvolazze sullo sfondo tolgano all’effetto e alla freschezza dei putti di quest’abbozzo».
Il problema attributivo che aveva segnato la storiografia nel corso dell’Ottocento si ripresentò nel Novecento: Zottman (1908, p. 53) vi riconosceva, sul solco di Morelli, la mano di Francesco Bassano, mentre Arslan (1931, p. 305) inseriva l’opera nel catalogo dell’ultimogenito Gerolamo. Bernard Berenson (1906, 1936) nel considerare il dipinto Borghese lo faceva risalire al capostipite Jacopo Bassano mentre Roberto Longhi (1928, p. 75) confermava l’attribuzione a Leandro proposta da Adolfo Venturi. A segnare un punto di svolta nella vicenda critica fu il primo intervento di restauro del dipinto avvenuta nel 1936 quando sulla roccia ai piedi della croce tornò alla luce la firma completa (Paola della Pergola 1955, pp. 104-105). In seguito a tale scoperta sia Berenson (1957, p. 23) sia Arslan (1960, p. 268) inserirono definitivamente l’opera nel catalogo di Leandro.
Così come per la provenienza, anche la datazione del dipinto resta problematica in assenza di addentellati documentari, cui la critica ha cercato di dare risposta. Un momento chiave per suddividere la cronologia della produzione di Leandro Dal Ponte è la sua nomina a cavaliere da parte di Marino Grimani, doge della Serenissima, avvenuta tra il 1595 e la primavera del 1596. Da quell’importante riconoscimento il bassanese cominciò ad apporre il titolo di eques di fianco al suo nome soprattutto nei dipinti di una certa rilevanza, e le eccezioni messe in evidenza da Pattanaro (2018, p. 81) in opere successive al cavalierato fanno comprendere come per Leandro firmarsi con il titolo ottenuto non fosse una prassi. Nella mostra tenutasi nel 1985 a Roma presso Palazzo di Venezia era stata proposta una datazione compresa tra il 1585 e il 1595, avvicinandola per stile ad altre opere note o di chiara ispirazione. Nel 2006 l’arco cronologico del dipinto su rame è stato spostato a primi anni del XVII secolo (Hermann-Fiore 2006).
Principale punto di riferimento per la lettura del piccolo dipinto è La Trinità appare alla Vergine, agli apostoli e a San Domenico della chiesa dei Santi Giovanni e Paolo di Venezia recante la firma di Leandro Bassano. La pala d’altare realizzata per la Confraternita dei Ligadori di Rialto tra il 1593 e il 1595 è ispirata dalla Santissima Trinità di Angarano, prototipo paterno consegnato nel 1547, a sua volta modellato sulla Trinità del Pordenone del Duomo di San Daniele del Friuli databile entro il 1535. A ricorrere nelle tre composizioni pittoriche è la triade divina – Cristo, Spirito Santo e Dio Padre – inquadrata dalle nubi che squarciano le tenebre, un motivo iconografico ispirato dalle scritture evangeliche circa la lacerazione della cortina del tempio di Gerusalemme avvenuta alla morte di Cristo a simboleggiare la rottura del velo dell’Antica Legge che impediva il componimento della Nuova (Lettera agli ebrei).
Il Padre Eterno è raffigurato nel tipo vegliardo canuto con la folta barba (“l’Antico dei giorni” del profeta Daniele, 7,9), avvolto in un ampio mantello e siede fra le nubi del cielo. Come i suoi illustri predecessori, Leandro nella pala per la chiesa dei Santi Giovanni e Paolo in Venezia e nella piccola Trinità Borghese sembra attingere al tipo medievale della Gnadensthul (Trono di Grazia), ma a differenza del Pordenone e seguendo le orme paterne la figura dell’Eterno non regge la croce con entrambe le mani, bensì lambisce con la destra il polso insanguinato di Cristo per rimarcare il concetto della consustanzialità tra Dio Padre e Verbo (Pattanaro 2018, pp. 84-87). Dio Padre nel dipinto Borghese ha il manto rigonfio alle proprie spalle e il volto è sapientemente riprodotto grazie alle note doti ritrattistiche del pittore.
La composizione del Cristo crocifisso deriva ancora una volta dalla pala di Angarano dipinta da Jacopo, il cui prototipo è anche rintracciabile nella Crocefissione del Museo Civico di Treviso; in più occasioni Leandro la ripropone nella sua produzione pittorica come si evince dal raffronto con la Trinità, sant’Andrea apostolo e due committenti conservata nella chiesa degli Eremitani a Padova, databile a cavallo tra XVI e XVII secolo. Il messaggio eucaristico del dipinto è altresì sottolineato dalla ricorrente simbologia del teschio di Adamo, similmente riproposto dall’autore nella Crocifissione dei Musei Biblioteca Archivio di Bassano del Grappa realizzata nel primo decennio del Seicento.
Il paesaggio rappresentato alle spalle della Trinità richiama gli scorci adoperati frequentemente dalla bottega dalpontiana, dove la collaborazione di più mani nelle opere era una prassi consolidata anche per far fronte alle pressanti richieste dei collezionisti e mercanti. Carlo Ridolfi (1648, p. 380) ricorda come i paesaggi bassanesi e vicentini fossero scenari privilegiati per collocare nel contemporaneo le storie bibliche. La presenza delle capanne, del Monte Grappa, del fiume Brenta, del ponte e della città di Bassano del Grappa sono un leitmotiv della bottega dei Bassano e rappresentano una sorta di firma nelle loro opere. La raffigurazione a sinistra del bosco e a destra della città indicherebbe una divisione tra la precarietà e il peccato dell’uomo e una visione serena e ordinata del mondo (Samadelli 2009). Sembrerebbe non essere da meno il paesaggio coperto dal cielo nuvoloso rappresentato con maestria attraverso filamentosi, densi e freddi tocchi di colore. Tuttavia, il ponte raffigurato alle spalle della Trinità appare frutto dell’osservazione di un altro luogo o della fantasia stessa dell’artista per la genericità dell’architettura. Essa di fatto non coincide con la costruzione realizzata da Andrea Palladio in seguito alla ‘brentana’ del 30 ottobre 1567, quando il vecchio ponte di collegamento tra Angarano e Bassano doveva essere nuovamente ricostruito. L’incarico per il ponte oggi noto come “degli Alpini” venne affidato all’architetto padovano e presentava già al tempo una copertura in legno, quest’ultima - è bene precisare - assente nella Trinità Borghese. Il ponte palladiano è invece fedelmente riprodotto nel dipinto raffigurante Un podestà di Bassano davanti alla Vergine conservato nei Musei Biblioteca Archivio di Bassano del Grappa, datato tra l’ottavo e il nono decennio del Cinquecento, dove l’intento vedutistico e documentario potrebbe essere stato frutto di una richiesta del committente. Ritroviamo ancora il ponte nella mappa della città di Bassano disegnata tra il 1583 e il 1610 a matita rossa, inchiostro e acquerello dai fratelli Francesco e Leandro. Anche la città è ritratta solo con pochi elementi e dunque risulta difficile stabilire quanto quelle architetture rappresentate alle spalle della Trinità possano rispondere ad un luogo esatto della città di Bassano del Grappa o ad un altro centro abitato dell’entroterra della Serenissima (Mazzi 2018, p. 25).
Un’ultima annotazione riguarda la cornice del dipinto, che nell’Inventario del 1693 è descritta solamente come dorata. L’attuale ornamento è databile alla prima metà del XVII secolo ed è realizzata con cartelle dorate, incise e bulinate agli angoli e ai centri, mentre le zone non decorate sono laccate a finto marmo tipiche della produzione marchigiana, influenzata dall’albana, modello diffuso ampiamente in Emilia (P. Zambrano 1992, p. 140).
Stefano Spinelli