Il dipinto fu eseguito nel 1617 da Giovanni Francesco Guerrieri per il palazzo dei Borghese a Campo Marzio, commissionato al pittore dal principe Marcantonio Borghese. Il soggetto è tratto dalla Genesi (19, 30-38) e raffigura la miracolosa fuga di Loth e della sua famiglia dalla città di Sodoma, distrutta secondo la tradizione con una pioggia di fuoco e zolfo. Dopo aver perso la moglie, trasformata in una statua di sale per aver disobbedito a un ordine divino, l’anziano padre rimase solo in una spelonca con le due giovani figlie, le quali per garantire la continuità della stirpe fecero ubriacare il padre, giacendo a turno con lui, che inconsapevole si prestò all’atto incestuoso.
Salvator Rosa, 167.3 x 189 x 10.5 cm
Roma, collezione Marcantonio Borghese, 1617 (Della Pergola 1959, p. 94, n. 134); Inventario 1693, Stanza III, n. 1; Inventario 1700, Stanza V, n. 37; Inventario 1790, Stanza III, n. 28; Inventario Fidecommissario Borghese 1833, p. 14. Acquisto dello Stato, 1902.
Il dipinto fu commissionato al pittore dal principe Marcantonio Borghese che nell'ottobre 1617 ordinò due cornici a decorazione della presente tela e del suo pendant con Giaele e Sisara - ad oggi mai rintracciata - realizzate da Giovan Francesco Guerrieri come soprapporte per alcuni ambienti di Palazzo Borghese di Ripetta. Trasferito poco dopo presso la villa di Porta Pinciana, il quadro fu descritto nel 1650 da Iacomo Manilli come opera del lucchese Archita Ricci, fluttuando negli inventari settecenteschi dal Franciabigio (1693) a Gherardo delle Notti (1790). Con tale nome, fu segnalato sia nell'Inventario Fidecommissario del 1833, sia nel catalogo di Giovanni Piancastelli (1891, p. 402), giungendo fino a Lionello Venturi che nel 1909 riesumò l'attribuzione avanzata da Manilli ad Archita Ricci.
Il dibattito sulla paternità dell'opera continuò nei decenni successivi, spingendo Hermann Voss ad attribuire la tela a Rutilio Manetti (1910, III, pp. 216-217), seguito da Giulio Cantalamessa che nel 1912 notava: "È un buon quadro del periodo naturalistico del Seicento romano" (1912, n. 45). Tenuto conto di questo parere, Roberto Longhi assegnò la tela ad Artemisia Gentileschi (1916, XIX, p. 291), avvicinando l'opera, qualche anno dopo (1928, p. 180), ad altre due varianti, conservate a Roma rispettivamente presso la Galleria Doria Pamphili e la Galleria di Palazzo Corsini. A mettere un punto alla questione fu Paola della Pergola (1959, pp. 94-95) che, attraverso un documento rintracciato nell'Archivio Borghese (Della Pergola 1956, pp. 225-228), restituì definitivamente il dipinto al catalogo del pittore marchigiano, mettendo d'accordo tutta la critica, soggiogata fino ad allora dalla straordinaria cultura dell'artista di Fossombrone che assommava in sé varie esperienze - romane, toscane, fiamminghe - causa dei molti pareri contrastanti, sorti intorno alla sua paternità.
Come ben argomentato da Andrea Emiliani (1997) e da Elena Fumagalli (1997), la tela costituisce un raffinato esercizio del pittore circa la rappresentazione di soggetti a lume di candela, stimolato con buona probabilità dall'opera di Gerrit van Hontorst - documentato a Roma dal 1616 al 1620 - di Luca Cambiaso e dei Bassano, i cui dipinti erano presenti in molte collezioni romane. Guerrieri, infatti, innestò tali esperienze su una forte e robusta matrice caravaggesca, combinandone gli esiti con una resa minuziosa degli oggetti che lo portò ad eseguire straordinari virtuosismi, come i riflessi delle dita sulla superficie della brocca, il cui manico - a forma di drago - rimanda allo stemma dei Borghese.
La scena dipinta è tratta dal libro della Genesi (19-33) e raffigura Loth, nipote del patriarca Abramo, che insieme alle sue figlie trova riparo presso una caverna dopo essersi salvato dalla distruzione della città di Sodoma, polverizzata da una pioggia di zolfo e fuoco, a cui rimanda il bagliore rossastro visibile sullo sfondo. Al suo fianco, sono ritratte le due giovani figlie che, dopo averlo fatto ubriacare, giacquero con lui per garantire la continuità alla loro genealogia. Secondo la tradizione, da questo incesto nacquero due figli, Moab e Ammon, capostipiti dei due popoli dei Moabiti e degli Ammoniti, tradizionali nemici di Israele.
Una replica di questo dipinto, ritenuta un'opera autografa da Andrea Emiliani (1991, p. 34; Id. 1997, p. 75) e una semplice copia dalla Fumagalli (1997, p. 92), si conserva presso la Galleria Doria Pamphili di Roma.
Antonio Iommelli