Il Concerto di Gerrit van Honthorst raffigura un gruppo di personaggi raccolti intorno ad un tavolo, intenti a suonare e cantare. Sulla sinistra della scena, in abito rosso e cappello piumato, il musicista tiene in mano il basso di viola e accompagna il giovane uomo seduto di fronte e la ragazza in piedi accanto a lui, intenti in un duetto. La donna tiene con una mano il libro di musica e con l’altra, fingendo di accarezzare sensualmente la testa del giovane, prova a sfilargli l’orecchino, forse un piccolo amuleto, mentre la sua più anziana complice ruba furtivamente dal borsello che l’uomo sembra tenere legato in vita. La scena è dunque incentrata su un vero e proprio inganno perpetrato ai danni del giovane, ma il gesto della donna anziana, con il dito alzato verso i due cantori, sembra rimandare ad un più ampio ammonimento verso i pericoli derivanti dal coltivare sfrenatamente le passioni del bere, della musica e dell’amore lascivo. Le sembianze della donna, sdentata e con il volto rugoso, alludono alla fugacità di questo genere di divertimenti, da cui sono attratti soprattutto i giovani, e che minacciano l’esercizio della virtù. Questa interpretazione del tema musicale trova riscontro nel clima moraleggiante di stampo calvinista che caratterizza i Paesi Bassi settentrionali nel primo Seicento, e che si riflette su un filone pittorico di scene di genere che proprio in quegli anni incontra particolare diffusione. In quest’ambito, anche la musica, arte virtuosa per eccellenza, viene associata a concetti di vanità e caducità (Economopoulos 2000, p. 216). Kristina Herrmann Fiore (2003, p. 58), pur accogliendo l’interpretazione moralistica del tema come rimando alle conseguenze della vanità mondana, ritiene che il gesto della vecchia non sia un rimando a questi concetti ma piuttosto il segnale di non parlare rivolto al musicista, accortosi del furto del gioiello.
Il quadro, di provenienza incerta, non è stato finora rintracciato nei più antichi inventari noti della collezione Borghese. Paola Della Pergola (1959, p. 165) ritiene che sia identificabile con l’“opera fiamminga, largo palmi 9; alto palmi 7 ½”, citata nell’elenco fidecommissario del 1833. È possibile che il Concerto corrisponda al “Baccanale di Gherardo de Loiresse” che compare nelle ricevute dei quadri acquistati da Marcantonio IV nel 1783, circostanza che chiarirebbe la modalità del suo ingresso in collezione Borghese, ma il riferimento rimane tuttora incerto.
Secondo la ricostruzione di Jay Richard Judson (1959, p. 241; Id. 1999, pp. 209), il dipinto proviene dai discendenti dell’artista e fu venduto all’asta nel 1770 ad Amsterdam, per poi arrivare, dopo vari passaggi, nelle mani del principe Borghese tramite Giovanni de’ Rossi (su questa ricostruzione si veda anche quanto riportato da Braun, 1966, pp. 240-242).
L’attribuzione dell’opera a Gerrit van Honthorst, che come si è visto non è attestata dagli inventari, viene proposta da Giovanni Piancastelli (1891, p. 420) e Adolfo Venturi (1893, p. 47) alla fine dell’Ottocento ed è oggi generalmente accettata. L’assegnazione al pittore di Anversa Theodoor Rombouts, proposta da Giovanni Morelli (Lermolieff 1874) e ripresa da Hoogewerff (1924, p. 11) e Van Puyvelde (1950, p. 178), viene invece considerata debole già da Della Pergola (1959, p. 165), che ne esclude ogni appoggio su base stilistica, mentre individua affinità cromatiche e luministiche con altre opere di van Honthorst, quali la Buona Ventura degli Uffizi e il Gruppo musicale su un balcone del Getty Museum di Los Angeles, quest’ultimo eseguito nel 1622.
Tali considerazioni sono al centro anche della dibattuta cronologia dell’opera, ritenuta dapprima riconducibile al soggiorno in Italia dell’artista, che ebbe luogo tra il 1610 circa e il 1620, ma in seguito postdatata e considerata degli anni successivi al suo rientro in patria.
Judson (1959, cit.; Id. 1999, cit.) ritiene il dipinto databile tra il 1626 e il 1627, mentre Braun (cit.) propone una cronologia ancora più avanzata, al 1630. Gli elementi maggiormente a sostegno di queste proposte derivano non solo dall’interpretazione moralistica della scena, di cui si è detto, ma anche dall’analisi cromatico-luministica del dipinto; i toni sono infatti più freddi rispetto alle opere eseguite in Italia, in particolare a Roma, dove il pittore risente da vicino dell’influsso caravaggesco, e la luce, nonostante sia resa tradizionalmente nei modi del Merisi, come un fascio diretto proveniente da sinistra, non si risolve in quella drammaticità del contrasto luce-ombra che l’artista aveva sperimentato proprio negli anni romani (Economopoulos, cit.).
Questi aspetti nel loro insieme inducono a ritenere convincente una datazione dell’opera posteriore al ritorno in patria, negli anni Venti del Seicento.
La lezione del Caravaggio, seppur smorzata in alcuni esiti, appare ben viva nell’opera dell’artista olandese, e si riscontra non solo nel fascio di luce che investe da sinistra i due cantori, con particolare risalto della veste gialla dell’uomo, ma anche nella tecnica, in cui si nota l’uso della preparazione grigia, tipica della produzione giovanile del Merisi. Infine, la natura morta che l’artista inserisce sulla tavola, colpita anch’essa dal fascio di luce, appare un evidente omaggio alla celebre Canestra di frutta della Pinacoteca Ambrosiana.
Una replica di questo dipinto si trova presso il Museo de Bellas Artes di Caracas.
Pier Ludovico Puddu