Il dipinto compare per la prima volta nell’inventario del 1790 come opera di Bartolomeo Schedoni, artista emiliano la cui carriera fu strettamente legata alle corti ducali di Modena e di Parma dove l'artista si trasferì nel 1607.
Nel modo di trattare la materia pittorica, l’opera è molto vicina a un certo numero di dipinti devozionali di piccolo formato eseguiti dal pittore in Emilia, sulla cui autografia la critica non è però unanime.
Roma, collezione Borghese, 1790 (Inventario 1790, Stanza X, n. 45); Inventario Fidecommissario Borghese 1833, p. 20. Acquisto dello Stato, 1902.
Questa tavola è attestata in collezione Borghese a partire dal 1790, elencata nell'inventario di quell'anno come opera di Bartolomeo Schedoni, nome accolto favorevolmente sia da Giovanni Piancastelli (1891) che da Adolfo Venturi (1893). Tale attribuzione fu messa in dubbio per la prima volta da Vincenzo Moschini (1927), seguito nel 1928 da Roberto Longhi che preferì parlare di un maestro della provincia emiliana, assai prossimo ai modi di Michelangelo Anselmi, Ercole Setti e Giambattista Tinti.
Nel 1955, concordando con un parere orale di Luigi Grassi, che considerava questo dipinto un originale di Schedoni vicino alla maniera di Parmigianino, Paola della Pergola pubblicò questa Sacra famiglia come opera autografa del pittore modenese, attribuzione ribadita da Kristina Herrmann Fiore (2006) che però non trova traccia nelle due monografie sull'artista (Cecchinelli, Dallasta 1999; Negro, Roio 2000).
L’opera è sicuramente vicina all'ambiente schedoniano, simile per composizione e per resa pittorica a un certo numero di dipinti devozionali di piccolo formato, eseguiti dal pittore modenese tra Modena e Parma, come la Sacra famiglia di collezione privata (Negro, Roio 2000), di cui la tavola è stata ritenuta una copia (Pallucchini 1945).
Antonio Iommelli