L’opera è firmata in basso a sinistra “Fed. Barocivs / Urb.as ping.at” ed è stata eseguita certamente entro il 1600, anno a cui risale la traduzione a stampa realizzata da Francesco Villamena. Il dipinto, rappresentante San Girolamo in contemplazione del crocifisso ripreso in un’ambientazione notturna, è attestato in collezione Borghese almeno a partire dal 1693.
Collezione di Scipione Borghese (?), Inventario ante 1633 (?)(Corradini 1998); Inventario 1693, Stanza II, n. 27 / Ivi, Stanza VIII, n. 5; Inventario 1700 c., Stanza II, n. 14; Inventario 1790, Stanza IX, n. 13; Inventario Fidecommissario Borghese 1833, p. 16, n. 15. Acquisto dello Stato, 1902.
In basso, a sinistra: "FED. BAROCIVS / URB.as PING.at"
Il dipinto presenta in basso a sinistra un’iscrizione con la firma dell’autore “FED. BAROCIVS / URB.as PING.at”, senza riportare alcuna datazione. Tuttavia, l’incisione eseguita nel 1600 da Francesco Villamena fornisce il termine ante quem per l’esecuzione del quadro, datato concordemente dagli studiosi agli ultimi anni del Cinquecento (Emiliani 1975, p. 185; Id. 2008, p. 168; Herrmann Fiore 2000, p. 79; Stefani 2000, p. 388; Delieuvin, 2013, p. 350;)
Nonostante si tratti di un’opera firmata e diffusa in incisione, essa non compare citata nelle fonti antiche e il suo primo riferimento documentario è rintracciabile nell’inventario Borghese del 1693, in cui due sono le voci che corrispondono nella descrizione: “un quadro di 4 palmi in tela con un S. Girolamo con un Christo in croce […] del Barocci” e “un quadro di San Girolamo che si batte il petto con cornice dorata di 4 e 3 […] del Barocci”. Un precedente riferimento al quadro è forse individuabile nella tela di stesso soggetto catalogata nell’inventario del cardinale Scipione Borghese, che ne attesterebbe la precoce presenza in collezione, ma l’assenza del nome dell’autore non ne permette la sicura identificazione (per l’inventario si veda S. Corradini, Un antico inventario della quadreria Borghese, in Bernini scultore. La nascita del barocco in Casa Borghese, cat. mostra (Roma, Galleria Borghese, 1998), a cura di A. Coliva, S. Schütze, A. Campitelli, Roma 1998, pp. 449-456; per la possibile datazione dell’inventario si veda S. Pierguidi, “In materia totale di pitture si rivolsero al singolar Museo Borghesiano”. La quadreria Borghese tra il palazzo di Ripetta e la villa Pinciana”, in “Journal of the History of Collections, XXVI, 2014, 2, pp. 161-170).
L’opera ritorna nei successivi inventari del 1700, del 1790 e in quello fidecommissario del 1833, sempre con l’attribuzione a Barocci.
Il quadro è forse riconducibile ad un contesto di devozione privata, dato che il soggetto godeva di ampio apprezzamento in epoca rinascimentale ed era particolarmente richiesto e diffuso. La figura di San Girolamo eremita nel deserto, infatti, non solo richiamava i concetti di penitenza, rinuncia e meditazione, ma il suo ruolo come Padre della Chiesa e autore della Vulgata ne faceva anche un perfetto esempio di intellettuale cristiano, dedito allo studio delle Sacre Scritture. Questi aspetti sono ben rappresentati nell’opera di Barocci, in cui il santo sembra aver appena posato il libro, visibile sotto il suo braccio sinistro, per dedicarsi ad un momento di profonda contemplazione del crocifisso ma anche di penitenza, come testimonia la pietra che tiene in mano e con cui si batte il petto. Un ulteriore riferimento all’importante ruolo del santo può forse essere costituito dall’architettura che si intravede sullo sfondo del dipinto, possibile accenno a un monastero e quindi richiamo alla parte avuta nello sviluppo del monachesimo (Delieuvin, cit.). L’ambientazione della scena è notturna, rischiarata solo dal leggero bagliore della luna, quasi del tutto coperta da una montagna nel paesaggio scuro che si apre in lontananza, e da una lanterna che illumina la grotta in cui si trova il personaggio. Sulla destra sono visibili i tipici attributi di San Girolamo, il teschio e la clessidra, allusioni alla morte e alla vanitas della vita terrena.
L’unica nota di colore del dipinto è rappresentata dal rosso slavato del manto di San Girolamo, che spicca tra i toni scuri della grotta, e del cappello cardinalizio che si intravede sulla destra della scena.
È stato notato (Schmarsow 1909, p. 19; Di Pietro 1913, p. 78) che il modello usato per la figura del santo è quasi certamente lo stesso del personaggio di Anchise nel dipinto rappresentante la Fuga di Enea da Troia (perduto), dipinto da Barocci per Rodolfo II d’Asburgo negli anni Ottanta del Cinquecento, di cui si conserva una seconda versione autografa in Galleria (inv. 68); questa corrispondenza, messa in dubbio da Harald Olsen (1962, p. 196) per via della distanza temporale intercorsa tra la prima versione dell’Enea e il San Girolamo, è invece condivisa da Andrea Emiliani (1975, cit.; 2008, cit.; si veda anche Della Pergola, 1959, pp. 69-70, n. 100; Delieuvin, cit.; ), il quale ritiene che Barocci riutilizzasse più volte gli stessi modelli già fissati in disegno. La testa di San Girolamo, infatti, con la stessa inclinazione, ritorna anche nella figura del vescovo nel più tardo Compianto di Cristo, lasciato incompiuto alla morte dell’artista (Bologna, Biblioteca Comunale dell’Archiginnasio).
Alcuni studi preparatori legati al dipinto sono conservati al Gabinetto dei Disegni e delle Stampe degli Uffizi (per cui si veda Emiliani 2008, pp. 170-171).
Pier Ludovico Puddu