Questo dipinto, eseguito su lavagna, compare per la prima volta nell'inventario del 1642 di Ortensia Santacroce, dalla cui eredità pervenne ai Borghese entro il 1693. Rappresenta san Girolamo, uno dei padri della Chiesa, qui ritratto in ginocchio davanti al Crocifisso, in atto di percuotersi il petto con una pietra. Al suo fianco giacciono un teschio, simbolo della vanità della vita terrena; un libro, forse la 'Vulgata' da lui tradotta in latino; un cappello cardinalizio e l'immancabile leone che, secondo la tradizione, ferito a una zampa da una spina, fu curato dal santo rimanendogli per questo fedele.
Questa composizione, eseguita con buona probabilità dal pittore Giacomo Rocca, sembra inoltre riflettere il pensiero di Girolamo a proposito del nutrimento dall'anima e della mente: "Quando parlo della croce, non penso al legno, ma al dolore [...] felice colui che porta nel proprio intimo la croce" (Commento al Salmo XCV).
Salvator Rosa (cm 55,8 x 47,8 x 5,5)
Roma, collezione Ortensia Santacroce, 1642, 30 giugno (Inventario Ortensia Santacroce 1642, n. 51; Della Pergola 1959); Roma, collezione Borghese, 1693 (Inventario 1693, Stanza VIII, n. 12; Della Pergola 1959) Inventario 1790, Stanza X, n. 8; Inventario Fidecommissario Borghese 1833, p. 17. Acquisto dello Stato, 1902.
Questa dipinto proviene dall'eredità di Ortensia Santacroce, moglie di Francesco Borghese e cognata di papa Paolo V. In un suo inventario, datato in fondo «30 giugno 1642» (Archivio Apostolico Vaticano, Archivio Borghese, b. 457, f. 27) si trova, infatti, elencato "Un quadro con Crocifissione e S. Gironimo in pietra di paragone" (Inv. 1642, n. 51; cfr. Della Pergola 1959) passato entro il 1693 in casa Borghese, dove venne più precisamente così descritto: "Un quadro di due palmi in pietra di lavagna, con Christo in Croce, San Girolamo in ginocchioni, che si batte il petto, il Leone a piedi la Croce con una testa di morto del n. 37. Cornice dorata di fra' Bastiano del piombo" (Inv. 1693; Della Pergola 1959).
Se nessun dubbio sorge sulla sua provenienza, lo stesso non si può affermare per quanto concerne l'autore. Considerato nel 1693 di mano di Sebastiano del Piombo, tale attribuzione fu rivista nel 1790 in favore di Girolamo Muziano (Inv. 1790), nome scartato dall'estensore del Fidecommisso ottocentesco che nel 1833 riportò il dipinto nel più assoluto anonimato (Inv. Fid. 1833) e come tale pubblicato sia da Paola della Pergola (Eid. 1959), sia dalla critica successiva (C. Stefani in Galleria Borghese 2000; Herrmann Fiore 2006). Di certo, l'opera fu eseguita da un pittore tardomanierista attivo a Roma nei primi anni del XVII secolo come suggeriscono la tipologia del Cristo crocifisso che fa eco a modelli romani, e il supporto adoperato - una pietra di lavagna - il cui utilizzo, riscoperto con Sebastiano del Piombo in seguito al Sacco di Roma nel 1527, ebbe una larga fortuna soprattutto nell'Urbe dove, a partire dai primi anni del XVII secolo, dipinti di piccolo formato commissionati perlopiù per uso devozionale, furono largamente ricercati dal mercato e da colti e raffinati collezionisti.
L'autore di questa composizione, dunque, dovette essere ben addentro a tale circuito, come lo sembra in effetti la figura di Girolamo Rocca, pittore romano e allievo di Daniele da Volterra - quest'ultimo altro grande protagonista della felice stagione della pratica del dipingere su pietra - il cui nome, già suggerito da Roberto Longhi (1928), è stato di recente riproposto da chi scrive (A. Iommelli in Meraviglia senza tempo 2022). Purtroppo, però, ancora scarno risulta il catalogo di quest'artista per poter assegnargli con una certa sicurezza la presente opera, la cui biografia, brevemente tratteggiata ne Le vite' de pittori di Giovanni Baglione del 1642, presenta un quadro con un soggetto analogo da lui realizzato per l'altare della cappella Ceuli nella basilica di Santa Maria degli Angeli a Roma (Baglione 1642).
Antonio Iommelli