Il vaso a forma di anfora ha un piede a base circolare con baccellature, il corpo decorato sulla spalla e nel sottocoppa con foglie lanceolate e con un fregio vegetale nella metà superiore. Le anse doppie a voluta dipartono dal corpo con due mascheroni e sono concluse in alto da volti egittizzanti. Il coperchio riprende il motivo decorativo a baccellature presente sul piede e ha un pomolo con quattro testine, con il tipico copricapo da faraone.
Per la realizzazione di questo straordinario pezzo in granito verde minuto borghesiano –una pietra rarissima che prende nome proprio da questo manufatto, che ne costituisce l’unico esemplare noto – fu incaricato Antonio Guglielmo Grandjacquet, che lo eseguì tra il 1783 e il 1787.
Ai primi dell’Ottocento Camillo Borghese fece trasportare il vaso nella sua residenza di Torino; durante il viaggio di ritorno a Roma, nel 1814, esso venne intercettato all’isola d’Elba da Napoleone e fu al centro di una trattativa per ottenerne la restituzione.
Particolarmente apprezzato dai contemporanei per la sua esotica eleganza, il vaso ha la foggia di un’anfora chiusa da un coperchio. Poggiante su un plinto quadrangolare, il piede ha una modanatura a listello e a onde ed è lavorato a baccellature; in alto è stretto da un nodo perlinato. Il corpo del vaso è orlato nel sottocoppa e sulla spalla da foglie lanceolate e movimentato nella metà superiore da una fascia con motivi vegetali stilizzati. Su tale fascia poggiano le due doppie anse, decorate con motivo fogliare ondulato, che terminano in basso con due volti barbuti e si avvolgono in alto intorno a due medaglioni, riproducenti teste in stile egiziano. Il coperchio, decorato da baccellature, ha un pomolo quadrifronte, riproducente volti umani con copricapi egiziani. Il basamento su cui poggia è contemporaneo, ed è stato eseguito in porfido rosso con specchiature nello stesso materiale del vaso: il granito verde minuto borghesiano, una pietra rarissima proveniente dall’Egitto orientale, che prende nome proprio da questo manufatto (Marchei 1997, p. 230, cat. 78). Esso era stato erroneamente indicato nei documenti come granito basaltino, e descritto da Visconti come “un raro e preziosissimo marmo somigliante nel colore, ma assai più fino del porfido verde” (1796, II, p. 99). Nibby lo aveva definito come “una pietra tendente al verde cinereo che io credo corrispondere all'ofite [serpentino] di Plinio” (1832, pp. 94-95).
L’anfora fu intagliata in un unico blocco di granito – un materiale estremamente duro e difficile da scolpire – fino a ridurne lo spessore a poco più di un centimetro, a conferma dell’abilità di Grandjacquet nel lavorare materiali “difficili”, piuttosto apprezzata a Roma, dove la moda del tempo riconosceva particolare valore a oggetti decorativi prodotti in materiali rari e generalmente complessi da lavorare (González-Palacios 2000, p. 206, cat. 98).
Che l’esecuzione dell’anfora abbia richiesto un notevole impegno tecnico è testimoniato dai quattro anni di lavorazione dettagliatamente documentati dai pagamenti. Grandjacquet ricevette 750 scudi dai primi di dicembre del 1783 fino al giugno del 1787, quando il vaso appare finalmente posto in opera nella Villa Pinciana (Archivio Segreto Vaticano, Archivio Borghese, Filza dei Mandati 9 dicembre 1783, 5848, n. 174; Filza dei Mandati, 1784-1785, 5849, nn. 26-99-19-84-155; Filza dei Mandati, 1785-86, 8090, nn. 96-864-252-667; Filza dei Mandati, 30 ottobre 1786, 5850, n. 107; Filza dei Mandati, 28 giugno 1787, 5851, n.69; Quaderno delle spese, 1785-1786, f. 8661, nn. 514, 521, 573; Quaderno delle spese, 1787, f. 8661, n. 622; v. Faldi, 1954, pp. 55-56, docc. I-XII).
All’inizio dell’Ottocento l’anfora fu trasferita a Torino nella residenza di Camillo Borghese e, nel 1814, durante il viaggio di ritorno a Roma, fu sequestrata all'isola d'Elba da Napoleone insieme con la Paolina canoviana. Nel reclamarne la restituzione, Camillo Borghese sostenne che "il vaso di porfido era stimato da Winckelmann duemila zecchini”: dichiarazione fantastica essendo l'esecuzione del vaso stesso posteriore di un ventennio alla morte dello storico dell’arte tedesco, ma che testimonia dell'alto grado di apprezzamento di cui l'oggetto godeva presso i contemporanei (Faldi 1954, p. 55).
Descritto come opera del Grandjacquet da Lamberti e Visconti nella Stanza di Paride (1796, II, p. 99), Nibby (1832, pp. 94-95) e Platner (III, 3, 1842, p. 249) lo ricordano, senza indicazione d'autore, nella galleria del pianterreno. Il Venturi (1893, p. 33) lo disse eseguito su disegno del Canina, seguito da De Rinaldis (1935, p. 10) che lo dichiarò del primo Ottocento. Successivamente (1948, p. 17) lo stesso lo indicava invece come eseguito nel 1787 su disegno e con la direzione del Grandjacquet; altrettanto riferiva Della Pergola (1951, p. 10).
Sonja Felici