Nel Vangelo di Luca (24, 14-35) viene raccontato il viaggio intrapreso la sera della Resurrezione di Cristo da Cleopa e un altro dei suoi discepoli verso il villaggio di Emmaus. Durante il cammino, i due stavano discutendo sull’episodio del ritrovamento del sepolcro vuoto di Gesù e sul dolore generato da questa scoperta, quando furono raggiunti lungo la strada da un viandante sconosciuto. L’uomo, ascoltando la loro conversazione, li rimproverò per la loro mancanza di fede.
Scarsellino decide di raffigurare questa vicenda all’interno di un paesaggio fluviale, in una valle dominata da un borgo merlato. In primo piano si trova Cristo, vestito all’antica ma con sandali e bastone da pellegrino, e i due discepoli, abbigliati come due viandanti dell’epoca in cui Ippolito realizzò il quadro. In secondo piano a sinistra, lungo il corso del fiume, due pescatori e un cane avvicinano lo spettatore all’episodio sacro grazie alla loro dimensione squisitamente quotidiana.
Lista del sequestro dei dipinti del cavalier d’Arpino, 1607, n. 64; Inventario 1693, Stanza II, n. 57 ; Inventario 1790, Stanza II, n. 50; Inventario Fidecommissario Borghese 1833, p. 7
La provenienza di quest’opera, come la maggior parte dei dipinti ferraresi in collezione, è incerta. Paola Della Pergola ha ipotizzato che la tela fosse frutto di un acquisto diretto del cardinale Borghese dal pittore, dato che l’attribuzione ad Ippolito Scarsella negli inventari Borghese è ripetuta con sicurezza (Della Pergola 1955). Kristina Hermann Fiore, in base ad alcune evidenze documentarie, ha proposto due ulteriori percorsi collezionistici. Il primo è quello di collegare l’opera al sequestro dei beni del cavalier d’Arpino del 1607. Infatti, nell’inventario successivo all’azione giudiziaria, al numero 64 compare un «Un quadro mezzano con un paese, et Christo in Emaus senza cornici» (Hermann Fiore 2000; Eadem 2002; Novelli 2008). Questa ipotesi potrebbe essere sostenuta dal viaggio dell’artista nell’Italia settentrionale tra il 1590 e il 1593 (Röttgen 1973) o dalla presenza del Cesari nel corteo che accompagnò a Ferrara nel 1598 papa Clemente VIII e Pietro Aldobrandini, impegnati nella presa ufficiale della città sotto la tutela dello Stato Pontificio. In entrambe le occasioni, il Cavaliere avrebbe potuto conoscere lo Scarsellino e ricevere in dono una sua opera. La seconda, vede la tela come uno dei dipinti ereditati da Pietro Aldobrandini dalla collezione di Lucrezia d’Este, meno convincente soprattutto per la mancata identificazione di un pittore ferrarese presente e sempre correttamente riconosciuto nei documenti relativi alla collezione della duchessa d’Urbino. Nel suo inventario di beni del 1592 al numero 33 si legge «Uno di Nr. Signore quando va in Emaus fatto in fiandra cornisato di legno adorato guarnito con sei serafini e quattro rosette di rilievo» (Della Pergola 1959). Il dipinto è stato riconosciuto nell’inventario del 1603 del cardinal nipote al numero 282, dove è scritto «Un Cristo con due discepoli nel viaggio di Emaus, di mano del Bassano» (Della Pergola 1960). L’attribuzione dell’opera al Bassano viene ripetuta nell’inventario Aldobrandini Pamphili ante 1665, dove al medesimo numero dell’inventario di Pietro Aldobrandini è descritto «Un quadro con Christo con li Discepoli in Emaus del Bassano in tela sopra tavola, alto p. quattro, cornice nera segnato n. 282». Le ipotesi più convincenti apparirebbero quelle dell’acquisizione diretta dall’artista o della provenienza dal sequestro del 1607. Infatti, la tela viene descritta e attribuita per la prima volta correttamente, posizionata da Manilli nel casino di Porta Pinciana «Sopra la porta del giardino, il quadro di Nostro Signore che va in Emmaus, con i due discepoli è di Scarsellino» (Manilli 1650). L’attribuzione viene confermata negli inventari del 1693, dove compare «In mezzo sotto al grande un quadro di quattro palmi in quadro di tela con Nro. Signore che va in Pellegrinaggio con due altre figure accanto con cornice dorata dello Scarsellino di ferrara del N», del 1790, in cui viene menzionato un «Cristo con i discepoli in Emmaus Scarsellino da Ferrara» e nell’elenco fidecommissario del 1833, nel quale compare un «Gesù col discepolo dello Scarsellino di Ferrara, largo palmi 5, oncie 6, alto palmi 3 oncie 10». Personaggi ed elementi naturalistici che richiamano la tradizione veneta, in particolare quella di matrice tintorettesca per quanto concerne la luce e quella di Veronese per la disposizione delle figure, elementi che consentono di inserire il dipinto nella produzione di Ippolito intorno al 1590, in un periodo antecedente alla realizzazione della Strage degli Innocenti (inv. 209) e alla decorazione dell’appartamento di Virginia del palazzo dei Diamanti (1592-1593), dove lavorò con i Carracci, subendone il fascino e l’influenza (Novelli 1955; Eadem 1964).
Anche questa tela è ascrivibile nel clima della “pittura degli affetti” intesa così come venne codificata dal cardinale Gabriele Paleotti nel suo trattato Discorso intorno alle immagini sacre e profane, edito nel 1582 a Bologna. Il celebre brano biblico, generalmente rappresentato nel momento culminante della cena in cui i due discepoli riconoscono Gesù, viene raffigurato come una scena di vita ordinaria, dunque molto vicina ai canoni prescritti per le opere realizzate a partire dall’età della Controriforma. All’interno di un paesaggio fluviale, in una valle dominata da un borgo merlato, si trova il Cristo in primo piano, vestito all’antica ma con sandali e bastone da pellegrino, e i due discepoli, abbigliati come due viandanti dell’epoca in cui Ippolito realizzò il quadro. A sinistra, lungo il corso del fiume in secondo piano, due pescatori e un cane avvicinano lo spettatore all’episodio sacro grazie alla loro dimensione squisitamente quotidiana.
Gli abiti dei personaggi ricordano quelli utilizzati per l’opera di analogo soggetto realizzata da Lelio Orsi realizzata tra il 1560 e il 1565 oggi presso la National Gallery di Londra (inv. NG 1466).
Il paesaggio fluviale sullo sfondo, l’ariosa gestualità dei personaggi, la posizione “serpentinata” del corpo di Cristo e la luminosità chiaroscurale dell’alba rendono la scena ancor più intensamente drammatica.
Lara Scanu