Il dipinto, probabile acquisto di Scipione Borghese, è menzionato in un poemetto del 1613 che descrive la collezione del cardinale. Si tratta di una copia di Bernardino Cesari tratta fedelmente da un quadro rappresentante Diana e Atteone eseguito dal fratello Giuseppe, detto il Cavalier d’Arpino, che ne produsse almeno due versioni. La tela, firmata sul sasso nella parte inferiore, rappresenta il dipinto principale attorno al quale si è ricostruito il catalogo pittorico dell’autore, di cui si conoscono ben poche opere.
Collezione Scipione Borghese, ante 1613 (Francucci); Inventario 1633 ca, n. 134; Inventario Fidecommissario Borghese 1833, p. 28, n. 52. Acquisto dello Stato, 1902.
Il dipinto rappresenta il mito di Diana che trasforma Atteone in un cervo. Si tratta di una copia di Bernardino Cesari della fortunata composizione del fratello Giuseppe, detto il Cavalier d’Arpino, nota in almeno due varianti autografe, rispettivamente conservate al Louvre e al Museo di Belle Arti di Budapest, e in diverse altre copie (per cui cfr. Röttgen 1973, pp. 107-109). Secondo Herwarth Röttgen (cit., pp. 107-108), dei due originali citati quello francese fu realizzato per primo, intorno al 1600-1601, in concomitanza con il viaggio a Parigi del Cavalier d’Arpino, per la ripresa del gruppo delle ninfe da un dipinto perduto di Pomarancio a Fointanbleu, la cui composizione è nota attraverso un disegno del Louvre. L’esemplare di Budapest risale all’incirca allo stesso periodo e si differenzia da quello parigino solo per alcuni dettagli, come l’assenza della lancia in mano ad Atteone; la replica di Bernardino, che ripete fedelmente la versione ungherese, trova quindi un termine post quem in questi anni ed è stata realizzata certamente entro il 1613, data in cui risulta già nella collezione Borghese. Pur non essendo note le circostanze di ingresso della tela in questa collezione, è possibile escluderne la provenienza dal sequestro dei beni del Cavalier d’Arpino del 1607 (attraverso il quale molte opere confluirono nelle raccolte di Scipione Borghese), nel cui inventario sono citati due disegni di Atteone, ma nessun dipinto con questo soggetto. È quindi verosimile che il quadro di Bernardino pervenne per acquisto diretto del cardinale Scipione, risultando già in suo possesso nel 1613: la tela è infatti descritta con la corretta menzione del Cesari nel poemetto di Scipione Francucci dedicato in tale data al cardinale. Anche nell’inventario di quest’ultimo (del 1633 circa) il dipinto è elencato con la giusta attribuzione: “134. Un quadro del bagno di Diana, et Atteone cornice di noce tocca d'oro, alto 2 1/3 largo 3 1/4 taffettano rosso. Belardino d'Arpino” (Corradini 1998, p. 452; per la possibile datazione dell’inventario cfr. S. Pieguidi, “In materia totale di pitture si rivolsero al singolar Museo Borhesiano”: la quadreria Borghese tra il palazzo di Ripetta e la villa Pinciana, in “Journal of the History of Collections”, XXVI, 2014, 2, pp. 161-170). L’opera è ricordata anche in alcune guide della collezione Borghese a partire da quella di Manilli del 1650 (p. 109, nella stanza delle Tre Grazie) e, sebbene non vi sia traccia nell’inventario del 1693 e in quelli settecenteschi, essa ricompare nell’elenco fidecommissario del 1833.
La paternità del quadro, mantenutasi inalterata in tutte le fonti, è resa manifesta dalla firma sul sasso al di sotto di Atteone: “Bernardinus Cesar ab exemplo Josephi fratris Arpinas”. La presenza della firma è di grande interesse in quanto il catalogo pittorico di Bernardino, di cui si conoscono ben poche opere, è stato ricostruito a partire da questo dipinto, che costituisce l’opera base per la conoscenza dell’artista (Röttgen cit., pp. 168-169; Id. 2002, p. 529; Id. 2019, pp. 148-149), definito da Baglione un eccellente copista e disegnatore. Generalmente, nelle sue pitture, Bernardino è del tutto orientato ai modi del fratello, ma si distingue per il tratto meno vaporoso e il carattere un po’ più freddo delle sue figure, spesso anche più pesanti nelle proporzioni rispetto a quelle di Giuseppe, come evidente anche dal confronto tra questa copia e i due originali citati.
L’episodio mitologico raffigurato è tratto dalle Metamorfosi di Ovidio (III, 138-259): secondo il racconto ovidiano il cacciatore Atteone sorprende Diana senza le vesti che si bagna con le sue ninfe, quindi la dea lo punisce trasformandolo in cervo per impedirgli di parlare. Reso così irriconoscibile ai suoi cani, Atteone-cervo sarà da essi divorato durante la fuga. Il soggetto, già diffuso nel corso del Quattrocento, perse la connotazione tragica e cruenta della descrizione ovidiana, e venne via via rielaborato dagli artisti in chiave ludica, o comunque decisamente erotica e boschereccia, attraverso la quale incontrò grande successo soprattutto tra gli artisti nordici a partire dall’ultimo quarto del Cinquecento. L’illustrazione di questo mito progredì quindi in una sintesi intorno alla pruderie della casta Diana turbata dall’intrusione di Atteone, e alla tematica venatoria, spunto per dipingere floridi paesaggi (Tosini 1996, pp. 153-155). Il soggetto risultava dunque molto adatto al gusto dei collezionisti alla ricerca di piccoli dipinti a carattere erotico-ornamentale per i loro camerini o cabinets. Il Cavalier d’Arpino si dedicò ampiamente a questo genere di pittura, non senza risentire dell’influsso dei numerosi artisti fiamminghi presenti a Roma alla fine del Cinquecento, contribuendo al successo di questo tipo di produzione, i cui prototipi dovevano essere largamente replicati nella sua bottega vista la loro immediata commerciabilità.
Il quadro del Cesari, replicato dal fratello, deroga alla fonte letteraria fondendo il momento della trasformazione di Atteone – che ha già le corna di cervo sul capo – con quello successivo dei cani pronti a sbranarlo. Patrizia Tosini (cit. p. 154) riconosce un’incisione di analogo soggetto di Antonio Tempesta come fonte di ispirazione per il dipinto dell’arpinate. Oltre all’analoga sintesi dei due momenti del racconto, gli stessi cani appaiono quasi copiati dalla stampa citata. La figura della dea di profilo, riconoscibile dall’attributo della mezzaluna appuntata sul capo, la quale tende le braccia in acqua per schizzare Atteone, è invece filtrata da un’invenzione del Parmigianino negli affreschi di Fontanellato.
Sulla base di un’indicazione di van Mander, la particolare scelta iconografica del Cavalier d’Arpino, riscontrabile anche in ambito fiammingo, è stata interpretata come uno sviluppo del mito di Diana e Atteone in senso moralizzato, dove il racconto assume il valore di monito a non lasciarsi inebriare dalle seduzioni dei sensi, in questo caso della vista: se da una parte la sensualità corporea di Diana e le sue ninfe provoca nello spettatore una certa sollecitazione dei sensi, dall’altra l’irreprensibile castità della divinità che orchestra la sua vendetta contro Atteone è il fulcro dell’insegnamento morale veicolato dall’opera (Tosini, cit. p. 154).
Pier Ludovico Puddu