Il dipinto corrisponde probabilmente all’ Ecce homo del Cavalier Giovanni Baglioni descritto da Marino nel 1620 (La Galeria), ma non è certo se a quella data fosse già in collezione Borghese, dove è attestato con sicurezza solo dal 1693.
La recente scoperta dell’iscrizione “IOHANNES BALIONI/E.R.F. 1606” posta sul basamento grigio al di sotto delle mani di Cristo ha fornito un riferimento cronologico certo sull’esecuzione del dipinto, già datato da Longhi al 1610 circa. Parallelamente è stata avanzata una nuova lettura iconografica del soggetto, comunemente interpretato come Ecce Homo, che vede l’opera come una rarissima rappresentazione di Cristo in meditazione sulla Passione. L’affinità della figura del Cristo con quella di San Giovanni Battista nel quadro di Caravaggio in questa stessa raccolta, datato 1610, ha fatto ipotizzare l’utilizzo di uno stesso modello, forse scultoreo, da parte dei due artisti.
Salvator Rosa cm. 184,5 x 141, 5 x 9
Collezione Scipione Borghese, 1620 (?); Inventario 1693, Stanza I, n. 50; Inventario 1790, Stanza I, n. 37; Inventario Fidecommissario Borghese 1833, p. 17, n. 16. Acquisto dello Stato, 1902.
Il riferimento più antico al dipinto è probabilmente quello contenuto nella raccolta poetica La Galeria di Giovan Battista Marino del 1620 (p. 59), in cui è descritto un Ecce homo del Cavalier Giovanni Baglioni. Questa citazione potrebbe suggerire che l’opera facesse parte della raccolta Borghese già in tale anno (Della Pergola 1959, pp. 66-67), tuttavia è solo dal 1693 che può dirsi certa la sua presenza in collezione, quando compare nel relativo inventario descritta come “un quadro di tela d’imperatore di un Ecce Homo tutto intiero con una canna in mano con uno che gli alza il panno dalla testa con una cornice dorata con Aquile e draghi alle Cantonate […] del cavalier Baglione”.
Successivamente, il quadro è ricordato nella guida redatta da Domenico Montelatici (1700, p. 223) con l’attribuzione ad un “figliuolo di Tintoretto” e negli inventari rispettivamente di fine Settecento e del 1833, in entrambi riferito a Valentin de Boulogne. Quest’ultimo nome permane nelle catalogazioni di Piancastelli e Venturi, e viene corretto solo da Longhi (1914, p. 10, nota 4; Id. 1928, p. 207), il quale restituisce il dipinto a Giovanni Baglione e lo data al 1610 circa, tra la Giuditta anch’essa in collezione Borghese (1608, inv. 15) e gli affreschi nella cappella paolina in Santa Maria Maggiore (1611-1612).
Nel corso degli anni si sono succeduti diversi tentativi di circoscrivere cronologicamente l’esecuzione del quadro tramite confronti con altre opere dell’artista (Macioce 2002, pp. XXIII; Ead. 2010, pp. 302-303; Nicolaci 2011, p. 211), questione che può dirsi definitivamente chiarita alla luce della recente scoperta dell’iscrizione “IOHANNES BALIONI/E.R.F. 1606” posta sul basamento grigio al di sotto delle mani di Cristo [Nicolaci 2011(2012), pp. 496-497]. La sigla E.R.F. può essere sciolta in “EQUES ROMANUS FECIT”, con riferimento all’appartenenza dell’artista all’Ordine dei Cavalieri di Cristo. Baglione ricevette l’investitura nel settembre del 1606, elemento che consente di circoscrivere l’esecuzione del quadro agli ultimi mesi di tale anno.
Secondo l’interpretazione di Michele Nicolaci [2011(2012), pp. 506-507], a cui si deve la scoperta della firma, il soggetto del quadro è comunemente frainteso come Ecce Homo ma corrisponde in realtà al rarissimo tema di Cristo in meditazione sulla Passione. Questa tipologia rappresentativa del Salvatore contempla un’ambientazione spoglia e la presenza degli strumenti tipici utilizzati durante i già passati momenti della flagellazione e della derisione. La presenza di elementi che rimandano al supplizio finale, quali i chiodi, le tenaglie e lo stesso crocifisso, e del sarcofago aperto alludono simbolicamente alla resurrezione e alla salvezza dell’umanità tramite l’espiazione dei peccati. Una rappresentazione che si pone dunque al di là di un tempo preciso e che, secondo una lettura metaforica più ampia, allude alla rivelazione al mondo del Cristo-Re, “svelato” dal manigoldo che alza il manto sulla sua testa.
La committenza del dipinto non è nota, tuttavia la scelta di inserire la qualifica di Eques nella firma potrebbe costituire un omaggio dell’artista al cardinal Sfondrati, suo protettore e officiante della cerimonia di investitura a cavaliere, che avrebbe poi venduto il dipinto ai Borghese, oppure allo stesso papa Paolo V, colui che effettivamente aveva il potere di conferire la nomina [Nicolaci 2011(2012), p. 508].
La scoperta di una cronologia precoce rispetto a quanto ipotizzato precedentemente ha costretto a rivedere le riflessioni intorno alla vicinanza del dipinto con il San Giovanni Battista di Caravaggio databile al 1610, in collezione Borghese dall’anno successivo (inv. 267). Il Cristo rappresentato da Baglione presenta la stessa torsione del santo caravaggesco (si noti come la pelle si piega all’altezza dell’ombelico) e la medesima posizione delle braccia, incrociate all’altezza dei polsi (Nicolaci 2011, cit.). Venuta meno l’ipotesi di una ripresa del modello caravaggesco da parte di Baglione, e risultando difficile pensare che quest’ultimo sia stato d’ispirazione al Merisi, data la storica rivalità tra i due, è possibile che entrambi abbiano guardato alla stessa fonte, forse statuaria, per la realizzazione delle loro opere (Vodret 2011, p. 27; Nicolaci 2012, p. 144).
Il debito verso Caravaggio è in ogni caso evidente nel fondo scuro e nella resa anatomica del manigoldo, nonché nella matericità degli strumenti di tortura, ma viene abilmente modulato dalla capacità di Baglione di coniugare ecletticamente più modelli stilistici, come quelli emiliani di ambito reniano visibili nella figura del Cristo. Quest’ultimo è rappresentato seduto, con una disposizione leggermente diagonale frequentemente utilizzata da Baglione, e il suo corpo è esaltato dalle vesti luminose che spiccano sullo sfondo, amplificando simbolicamente il suo ruolo salvifico attraverso il contrasto tonale e chiaroscurale (Macioce 2002, cit.; Ead. 2010, cit.; Nicolaci 2011, cit.).
Pier Ludovico Puddu