A differenza di varie opere del Cavalier d’Arpino conservate nella Galleria Borghese, la Fuga in Egitto non fece parte del sequestro dei beni del Cesari del 1607 e con buona probabilità passò direttamente dalle mani del pittore in quelle del cardinale Scipione Borghese. Il dipinto è generalmente databile agli anni giovanili dell’artista. Il fascino dell’opera risiede nell’intimità della raffigurazione della Sacra Famiglia e nel suo inserimento in un delicato paesaggio fiabesco, che testimonia la maestria del Cesari in questo campo. Sul fondo del dipinto, a sinistra, è raffigurato il Tempio della Sibilla a Tivoli, motivo forse allusivo alla profezia della Sibilla sulla nascita di Cristo.
Questo piccolo quadro in tavola, caratterizzato da un paesaggio quasi fiabesco dai toni molto delicati, è stato variamente datato dalla critica dal 1592-1593 al 1615. Oggi è tuttavia generalmente condivisa una datazione al periodo giovanile del Cavalier d’Arpino, intorno al 1595, per gli evidenti rapporti con altre sue opere coeve come la Madonna con Bambino e santi (Minneapolis, The Minneapolis Institute of Arts) e il Crocifisso con Maria, San Giovanni Evangelista e Maria Maddalena (Napoli, Chiesa della Certosa di San Martino), nonché con alcuni dipinti degli stessi anni di Paul Bril.
Nel paesaggio con la Fuga in Egitto, in primo piano è raffigurata la Vergine su un asino, con in braccio il Bambino che tende la mano a San Giuseppe. Quest’ultimo è rappresentato in piedi in posizione poco più arretrata e decentrata. La composizione è chiusa sulla destra dalla fitta vegetazione che arriva fino al primo piano, mentre sulla sinistra si apre uno scorcio di campagna con la veduta di un edificio antico sullo sfondo, identificato con il tempio della Sibilla a Tivoli. È stato ipotizzato che la presenza del tempio in questione non rappresenti solo un motivo paesaggistico, ma sia significativamente legata all’iconografia del soggetto sacro: il tempio potrebbe infatti alludere alla profezia della Sibilla di Tivoli sulla nascita di Cristo, di cui racconta San Matteo. Il motivo della veduta di un fondovalle è una costante nella produzione dell’arpinate e infatti la si ritrova, in forma simile, anche nella grande pala d’altare di San Francesco confortato da un angelo oggi nel Musée de la Chartreuse di Douai (Röttgen 2002, p. 286). Come in altri dipinti del Cesari, anche in questo caso sono presenti riferimenti compositivi ai paesaggi fantastici di Paul Bril: il grande albero che incornicia le figure sulla destra, i forti contrasti luce-ombra della vegetazione, la resa analitica dei dettagli vegetali e la stessa presenza del tempio sullo sfondo, sono tutte componenti tipiche delle prime opere romane di Bril e denotano il tentativo di imitarlo; tuttavia lo stile del Cavalier d’Arpino si distingue per una pennellata più lunga e maggiormente fluida. Considerati gli evidenti rapporti con la prima produzione brilliana, la datazione della tavola del Cesari al 1595 circa risulta del tutto sostenibile. L’attenzione alla resa minuziosa del paesaggio nell’ambito della pittura devozionale di piccolo formato a destinazione privata è manifesta anche in altri quadretti dello stesso periodo (Cappelletti 2006, p. 91).
La Fuga in Egitto non fece parte dei beni sequestrati al pittore nel 1607, attraverso cui diverse sue opere entrarono nella collezione di Scipione Borghese, ma verosimilmente fu acquisita dal cardinale in un momento successivo. Infatti, stando alla prima notizia documentaria in un pagamento del 1617 al pittore Giovanni Maria Carrara, per la doratura della cornice della “Madonna che va in Egitto del Cavalier Giuseppe” (Della Pergola 1959, p. 61), è possibile ritenere che il dipinto fu ceduto direttamente dall’artista al mecenate nel periodo in cui gli erano state affidate molteplici commissioni. Successivamente l’opera è ricordata nella guida di Manilli come la “Madonna che va in Egitto è dell’istesso [Cavalier Giuseppe]” (1650, p. 112), mentre negli inventari della collezione Borghese è sempre menzionata (a partire dal 1693) ma alternativamente attribuita al Cesari e ad autore ignoto. Fa eccezione un inventario del 1837, in cui si fa il nome di Bernardino Cesari, fratello dell’autore. L’esatta attribuzione al Cavalier d’Arpino riappare in un inventario del 1888 ed è successivamente ripresa e convalidata da Giovanni Piancastelli, Adolfo Venturi e Roberto Longhi. Quest’ultimo tuttavia riteneva si trattasse di una copia dal Riposo durante la fuga in Egitto già Barberini e ora a Boston (Longhi 1928, p. 198; Röttgen cit., p, 286).
Esposta sia nella mostra del Cavalier d’Arpino del 1973, sia in quella intitolata il Genio di Roma del 2001, l’opera costituisce un elevato esempio della maestria del Cesari in campo paesistico.
Pier Ludovico Puddu