Dopo diverse attribuzioni, tutte ristrette all’ambito dei caravaggeschi francesi (Claude Mellan, Valentin de Boulogne, Nicolas Régnier), il dipinto è stato definitivamente restituito dalla critica al pittore marchigiano, nome avanzato anche in virtù della sua presenza, in qualità di decoratore al servizio di Marcantonio Borghese nel 1618, nel Palazzo Borghese di Campo Marzio.
Il soggetto, ripreso dal celebre racconto biblico, si svolge all’interno del carcere, dove Giuseppe è ritratto mentre predice la sorte al panettiere e al coppiere del faraone, suoi compagni di cella. Chiara è l’adesione sia alla cultura caravaggesca, in particolare alla Vocazione di San Matteo, sia alla descrittività di stampo nordico, come si avverte in particolare dal paesaggio con alcuni personaggi dipinti al di là delle sbarre.
Salvator Rosa, 194 x 271 x 9,8 cm
Roma, collezione Borghese, 1693 (Inventario 1693, Stanza II, n. 4); Inventario 1700, Stanza II, n. 66; Inventario 1790, Stanza V, n. 21; Inventario Fidecommissario Borghese 1833, p. 18. Acquisto dello Stato, 1902.
Il dipinto è segnalato per la prima volta in collezione Borghese nel 1693, descritto dall'estensore dell'inventario con un'attribuzione ad Antiveduto Grammatica, nome destinato a mutare nel corso dei secoli a favore di Caravaggio (Inv. 1700, St. II, n. 66), di Guercino (Inv. 1790, St. V, n. 21) e di Valentin de Boulogne (Inventario Fidecommissario 1833; Piancastelli 1891; A. Venturi 1893). I dubbi sulla paternità dell'opera non cessarono neanche nel Novecento, assegnata da Roberto Longhi dapprima (1916) ad Artemisia Gentileschi e successivamente (1928) a Nicolas Régnier, seguito da Aldo de Rinaldis che nel 1937 indicò la tela come opera di "ignoto caravaggesco", cambiando opinione poco dopo (1939) in favore di Orazio Gentileschi. Ricondotto cautamente da Paola della Pergola a un ignoto pittore caravaggesco, nel 1968 Jacques Thuillier avanzò deciso il nome di Claude Mellan, parere accolto positivamente da Arnauld Brejon de Lavergnée (1973) e da Benedict Nicolson (1979) ma messo in dubbio da Luigi Ficacci (1989). A mettere un punto alla questione sono stati da un lato Gianni Papi (1991) e dall'altro Marina Cellini e Andrea Emiliani che nel 1991 hanno avanzato l'attribuzione a Giovan Francesco Guerrieri, trovando la soluzione a uno dei dilemmi più complessi in ambito caravaggesco, a cui pare lo stesso Longhi (1916) fosse in qualche modo pervenuto. In particolare, nel 1997 Papi ha riconfermato il suo riferimento al pittore marchigiano, mettendo a confronto il San Giuseppe che spiega i sogni con altre opere del Guerrieri, come le tele della cappella di San Nicola a Sassoferrato e la Maddalena penitente di Fano (collezione Cassa di Risparmio).
Il soggetto di questa tela è tratto dalla Bibbia, dove nell'ultima parte del libro della Genesi (Genesi 40, 1-23) si parla di Giuseppe, uno dei dodici figli di Giacobbe, dotato da Dio del potere di interpretare i sogni. Sbattuto in prigione, dopo essere stato ingiustamente accusato dalla moglie di Putifarre di tentata violenza, il giovane ragazzo incontra il panettiere e il coppiere del faraone, ai quali decide di svelare il significato dei loro sogni, preannunciando al primo la condanna a morte, al secondo la futura scarcerazione. Il quadro ritrae infatti il preciso istante in cui Giuseppe sta rivelando al panettiere il suo triste destino, contando con la mano sinistra i giorni che restano al funzionario del faraone prima di essere impiccato. Come ha debitamente osservato Olga Melasecchi (2010), questo quadro è con ogni probabilità l'opera più caravaggesca del pittore, sia per il gioco della luce, sia per il realismo delle figure e di numerosi dettagli che impreziosiscono la composizione, come la natura morta di orci visibile sulla destra, mitigati da una 'descrittività ornata e fiammingheggiante' e dagli esiti dei riformati toscani (cfr. Emiliani 1991).
Se come indicato da Papi (1997) questa tela fu eseguita dal pittore intorno al 1618 in concomitanza della decorazione dell'appartamento di Palazzo Borghese di Campo Marzio - esecuzione leggermente anticipata da Barbara Ghelfi (2011) al 1615-1617 - è possibile quindi ipotizzare che l'opera entrò in collezione Borghese prima del 1693, commissionata probabilmente dal principe Marcantonio insieme ad altre opere, tra cui il San Rocco (inv. 69) e Lot e le figlie (inv. 45).
Una replica di questo dipinto, conservata a Vienna (Kunsthistorisches Museum, inv. 1551), è stata avvicinata con qualche riserva al pittore sempre da Papi (1993) che però l'ha reputata una versione più tarda eseguita nelle Marche.
Antonio Iommelli