Si tratta della copia del celeberrimo ritratto di Raffaello raffigurante, secondo la tradizione, Margherita Luti, figlia di un fornaio di Trastevere – da cui la denominazione ‘Fornarina’ – conservato alla Galleria Nazionale di Palazzo Barberini a Roma. Riferita, nelle descrizioni ottocentesche, a Giulio Romano, in tempi più recenti è stata attribuita a un altro allievo del Sanzio e collaboratore del Pippi, Raffaellino del Colle.
Roma, Collezione Borghese, ante 1824 (Vasi 1824); Inventario Fidecommissario Borghese 1833, p. 11. Acquisto dello Stato, 1902.
Il dipinto nella Galleria Borghese è la copia del celeberrimo ritratto di Raffaello, conservato presso la Galleria Nazionale di Palazzo Barberini. La figura della giovane donna, con il capo avvolto da un prezioso e lucente panno pieghettato, a fondo giallo oro percorso da righe turchesi concluso da frange e ornato da un gioiello con rubino e perla pendente. I capelli neri, divisi al centro da una scriminatura, evidenziano il candore della carnagione. La fanciulla, seduta di tre quarti, è vestita da un leggerissimo velo trattenuto dalla mano destra, che le lascia scoperto il seno e le avvolge la vita lasciando in vista l’ombelico; sulle gambe è appoggiato un tessuto color corallo dai riflessi serici. Spicca sul braccio sinistro il famoso bracciale indossato all’antica che su fondo turchese reca a lettere dorate l’iscrizione “Raphael Urbinas”. Rispetto all’originale la copia, sostanzialmente fedele, si differenzia oltre che per il supporto, tela anziché tavola, per l’assenza dell’anello portato all’anulare sinistro in corrispondenza della seconda falange e per lo sfondo, che appare notevolmente più scuro e uniforme della tavola Barberini probabilmente a causa di una ossidazione in parte legata all’applicazione della tela su un supporto ligneo, effettuata in un secondo momento. Infatti in realtà anche la Fornarina Borghese è rappresentata davanti a un fitto cespuglio di mirto e melo cotogno, piante dal carattere simbolico perché riferite a Venere. Vicino al bordo superiore si intravedono infatti piccole porzioni di cielo, seppure di tonalità assai più scura del blu intenso presente nell’originale di Raffaello.
Per molto tempo si è ritenuta possibile una provenienza dalla collezione Aldobrandini (Della Pergola 1959; L. Mochi Onori in Raffaello 1984; A. Costamagna in Raffaello. La Fornarina 2001, pp. 25-26). Tuttavia dalle ricerche effettuate sono emerse novità in merito al momento di effettivo ingresso nella collezione Borghese, attualmente in corso di pubblicazione.
Tra le fonti, la più precoce testimonianza della presenza di una copia della Fornarina presso i Borghese è quella del Vasi del 1824 (p. 311 “sesta camera…il ritratto della Fornarina di Raffaello, egregiamente dipinto da Giulio Romano”), seguita a breve distanza di tempo da una nota a margine della biografia del pittore scritta da Quatremère de Quincy, tradotta e redatta con aggiunte da Francesco Longhena (1829), nella quale venivano ricordate le tre copie presenti “in Roma bellissime: una nella Galleria Sciarra, l’altra in casa Borghese, e la terza in possesso di un certo sig. Celli persona privata”.
Nel fidecommisso del 1833 il dipinto compare con l’attribuzione a Giulio Romano, seppure con l’erronea indicazione “in tavola”: attribuzione sostenuta da Nibby (1841) e Barbier de Montault (1870) a cui si contrappone il parere di Venturi (1893), che sposta la datazione al Seicento proponendo l’attribuzione a Sassoferrato, già avanzata da Mündler (in Burchkardt 1869) e accettata da Cantalamessa nelle sue note manoscritte al catalogo di Venturi. Differente il parere di Longhi (1928), che ritiene l’opera “eccellente”, senza alcun dubbio cinquecentesca e più verosimilmente accostabile al nome di Giulio Romano; datazione sulla quale concorda Della Pergola (1959) – che ne rileva erroneamente l’esecuzione su tavola - pur ritenendola “di mano non molto nobile”. Spetta a Hartt aver riferito per primo (1944; 1958; 1981) il dipinto a Raffaellino del Colle, ipotizzando che possa trattarsi di un’opera commissionata a Giulio Romano ma lasciata incompleta al suo collaboratore in seguito alla partenza per Mantova, attribuzione a cui ha aderito la critica più recente (Herrmann Fiore 1992; Meyer zur Capellen 2008).
All’epoca del fidecommisso, in cui è stata inserita fra i capolavori della collezione, l’opera risulta collocata per corrispondenza iconografica nella “Camera delle Veneri” del palazzo di Ripetta, ma tra il 1854 e il 1859 compare nella stanza II, insieme alle opere di Raffaello e della sua bottega a seguito del riordino della collezione per scuole pittoriche e ambiti cronologici voluto da Pietro Rosa (Mochi Onori 1984). Nel 1891, in vista della vendita della collezione allo Stato italiano, venne trasferita presso la villa Pinciana nell’allora sala X (oggi sala IX; Venturi 1893), dove è tuttora collocata insieme ai capolavori di Raffaello.
Nel 1943, durante il conflitto, l’opera è stata dapprima trasferita, con altri quadri della Galleria, a Carpegna e successivamente ricondotta a Roma e ricoverata presso la Santa Sede (Melograni 2015).
Marina Minozzi