La tavola venne eseguita dal Francia per Dorotea Fantuzzi (m. nel 1589), entrata del convento domenicano di S. Maria Maddalena a Bologna nel 1518. L’ingresso nella vita religiosa della committente si mostra utile ai fini della datazione del dipinto Borghese, citato in collezione solo a partire dal 1833. L'opera non si discosta dalla produzione dell'artista, sempre impegnato in composizioni dolci ed equilibrate, ma di scarsa forza emotiva, in cui largo dovette essere l'intervento della bottega.
Bologna, convento di S. Maria Maddalena; Roma, collezione Borghese, registrato nell’Inventario Fidecommissario Borghese 1833, p.14. Acquisto dello Stato, 1902.
sul retro “SOROR DOROTHEA DI FANTUZZI IN STRA.MA.MAGNA”
Le notizie circa la provenienza e la commissione del dipinto sono riportate sul retro della tavola. La prima riporta il dipinto al Convento di S. Maria Maddalena a Bologna, da cui proviene. La commissione è invece legata alla figura di Dorotea Fantuzzi, dedicataria dell’opera, entrata nel convento domenicano nel 1518. Dalla sede bolognese sarebbe arrivata a Roma in data imprecisata, ma certamente prima del 1678, quando Malvasia ricorda come «restringendomi a quelle solo di Roma, per essere impossibile a dir tutte, quella che è nei camerini della Villa Borghese, tenuta colà comunemente di Pietro Perugino» (Malvasia 1678). Un’ascrizione che sarà rettificata negli elenchi del Fidecommisso (…) dove risulta registrata come opera del Francia. Concorde il giudizio in tal senso di Venturi e Longhi, mentre il nome dell’allievo Jacopo Boateri, era stato fatto da Ricci, su proposta di Piancastelli. Ancora come opera di uno scolaro o imitatore, è segnalato da Lermolieff [Morelli] (Morelli, 1889 (1897), pp. 194-195).
Nel catalogo della collezione, Paola della Pergola ricorda il dipinto quale opera sicura dell’artista (Della Pergola 1955, p. 37). La stessa studiosa menziona la presenza di una versione molto simile, salvo la presenza di due angeli su uno dei lati, conservata nel Castello di Rohoncz in Ungheria. In favore di un intervento della bottega è Emilio Negro, giudicando comunque «non improbabile che egli sia intervenuto in parte dell’esecuzione, come pare rivelare la delicata finezza del viso della Vergine, sebbene la robustezza delle figure rimandi piuttosto alla maniera dei figli» (Negro 1998, pp. 249-250). Ancora all’interno del principale studio sull’artista, è proposto quale autografo il solo impianto compositivo, che sarebbe stato ripreso dai figli nel dipinto della Pinacoteca Nazionale di Bologna (inv.n. 568). Elementi questi che farebbero propendere per una cronologia tarda dell’opera, attorno al 1515 quando era ormai frequente il contributo dei figli Giacomo e Giulio. Certamente presenti sono le formule di successo di composizioni presenti in altre versioni attribuite alla bottega del Francia, probabilmente derivanti da un modello messo a disposizione dal maestro, per esser poi rielaborato. L’intervento di Francesco sembra rilevante, sebbene l’ampiezza delle forme è probabilmente da attribuire all’intervento di uno dei suoi figli o comunque alla sua bottega. La predilezione da parte del maestro per figure esili e filiforme intorno a questa data, è uno degli elementi che maggiormente inducono a collocare la voluminosa composizione nel secondo decennio del Cinquecento.
Fabrizio Carinci