Questa tela proviene dalla cospicua eredità di Olimpia Aldobrandini che nel 1682, un anno prima della morte, destinò parte delle sue proprietà al figlio Giovanni Battista Borghese. L'opera, ritenuta una copia di un dipinto di Scipione Pulzone, eseguita da Marcello Venusti intorno alla seconda metà degli anni Settanta del Cinquecento, rappresenta Maria, ritratta col capo coperto mentre con lo sguardo rivolto verso il basso osserva con ogni probabilità il corpo del piccolo Gesù.
Roma, collezione Aldobrandini, 1612 (Parrilla 2013, p. 385). Meldola (Forlì-Cesena), collezione Aldobrandini, 1612-1633. Casale di Torrenova (Roma), collezione Olimpia Aldobrandini, 1633. Casale di Torrenova (Roma), collezione Olimpia Aldobrandini, 1682. Casale di Torrenova (Roma), collezione Giovanni Battista Borghese, 1683. Roma, collezione Borghese, 1790 (Inventario 1790, Stanza I, n. 11). Inventario Fidecommissario Borghese 1833, p. 22. Acquisto dello Stato, 1902.
Il dipinto è segnalato per la prima volta in collezione Borghese nel 1790, menzionato dall'estensore dell'inventario come "La Madonna, Scipione Gaetano". Tale nome, ripetuto negli elenchi fedecommissari del 1833, fu accettato senza alcun dubbio da tutta la critica (Piancastelli 1891; A. Venturi 1893; Id. 1934; Longhi 1928), ad eccezione di Federico Zeri (1957) che ritenne la tela un'opera di derivazione. Pubblicato come quadro autografo nel catalogo dei dipinti della Galleria Borghese da Paola della Pergola (1959), il dipinto fu inserito dalla studiosa tra le opere meno felici del pittore di Gaeta, la cui tradizionale assegnazione al Pulzone, ribadita nel 1996 da Augusto Donò, è stata messa in dubbio da Alexandra Dern (2003).
Nel 2013, Francesca Parrilla ha definitivamente espunto l'opera dal catalogo dell'artista gaetano, assegnandolo con precisi riferimenti documentari a Marcello Venusti che, nella seconda metà degli anni Settanta del Cinquecento, copiò questa Beata Vergine da un originale di Scipione Pulzone attestato sul finire del Seicento nella quadreria di Gabriele Dal Pozzo e oggi in collezione privata (Tempesta 2000). La studiosa, inoltre, è riuscita a ricostruire la storia del dipinto prima del suo ingresso nella collezione Borghese, individuandolo in un inventario del 1612 della famiglia Aldobrandini ("ritratto della Beata Vergine di Marcillo"; Parrilla 2013, p. 385) stilato in occasione dell'invio di diverse opere a Meldola, feudo emiliano acquistato da papa Clemente VIII al tempo della Convenzione Faentina. Riportato a Roma, e precisamente nella tenuta di Torrenova sulla via Casilina - passata nel 1600 da Francesco Cenci agli Aldobrandini e da questi ai coniugi Olimpia junior e Camillo Pamphili - qui il quadro è documentato nel 1633, abbellito da preziosi ornamenti ed esposto nell'anticamera del primo appartamento. Nel 1682, infine, un anno prima della morte della principessa Olimpia, l'opera fu registrata nell'inventario dei suoi beni con il preciso riferimento a Marcello Venusti, destinata assieme al casale di Torrenova, a suo figlio Giovanni Battista Borghese, entrando quindi definitivamente a far parte della ricca collezione di casa Borghese.
La tela rappresenta la Vergine Maria, ritratta col capo coperto e con lo sguardo rivolto verso il basso mentre osserva con ogni probabilità il corpicino del piccolo Gesù, disposto sulle sue ginocchia o nella tradizionale culla, come è stato raffigurato da secoli in tantissime opere analoghe. L'opera infatti è ritenuta dalla critica una sorta di versione ridotta di un dipinto più grande, individuato dalla Parrilla con la Madonna della Divina Provvidenza eseguita da Scipione per i padri Barnabiti (Roma, San Carlo ai Catinari, cappella dei Padri) e con la Vergine, raffigurata nella Sacra Famiglia della Galleria Borghese (inv. 313). Il volto di Maria inoltre mostra chiare similitudini con quello della Madonna detta della Rosa, eseguita da Pulzone nel 1592 (Roma, Galleria Borghese, inv. 381), da cui derivano le due telette di autore ignoto, conservate nel convento di Santa Teresa a Caprarola e nella cattedrale di Priverno (già nella chiesa di San Francesco Vecchio).
Il cospicuo numero di copie tuttora esistenti, nate come icone destinate al culto privato dei fedeli, prova l'immensa fortuna avuta da questa immagine, la cui diffusione è attestata dalla presente tela.
Antonio Iommelli