Il prezioso ovale dipinto su due facce, montato in un’incastonatura che ne permette la visione dei due lati, rappresenta due scene tratte dalle Metamorfosi di Ovidio: l’episodio della liberazione di Andromeda dal mostro da parte di Perseo e quello della uccisione di Adone, amato da Venere, da parte del cinghiale. Autore del dipinto è Antonio Tempesta, esperto autore di dipinti su pietra, che anche qui dimostra la sua raffinata capacità di sfruttare le naturali cromie del minerale integrandole nella rappresentazione.
Collezione Borghese, Inventario 1693, stanza passata la Galleria, n.n.; Inventario 1700 ca., Stanza VIII; Inventario 1790, gabinetto, n.n.; Inventario 1812, n. 41. Acquistato dalla ex Soprintendenza PSAE e per il Polo Museale della città di Roma nel 2005.
La sottilissima lastra ovale di lapislazzuli è dipinta su entrambe le facce con episodi tratti dalle Metamorfosi di Ovidio: da un lato è rappresentato il mito di Andromeda incatenata alla roccia con lo sguardo rivolto in alto verso Perseo, che a cavallo di Pegaso sta per colpire con la lancia il mostro marino; sull'altro lato è raffigurata Venere che, giunta inutilmente in soccorso di Adone, scopre il corpo dell'amato ucciso dal feroce cinghiale.
Il prezioso manufatto, oggi assegnato ad Antonio Tempesta, è citato per la prima volta in collezione Borghese nell'inventario del 1693 (Della Pergola 1965, p. 212), dove compare, privo di attribuzione, nella «stanza passata la galleria» del palazzo in Campo Marzio, esposto in pendant con un altro, recentemente individuato da Andrea G. De Marchi in collezione privata, della medesima forma e ugualmente dipinto sulle due facce, raffigurante la Caduta di Fetonte e il Ratto di Ganimede: «(646) due quadretti dipinti sopra lapis lazzoli a due faccie ovati diametri di un palmo et un 4.to da una parte il Carro di Fetonte precipitato dall'altra il ratto di Ganimede, all'altro da una parte Andromeda legata ad uno scoglio e dall'altra una donna tirata da due cigni con cornice di rame dorato con attaccaglie di argento n. [...] incerti».
In entrambe le facce dell'ovale in mostra è presente Cupido. Compare in atto di scoccare la freccia nella scena con Andromeda e Perseo, intendendo come il gesto dell'eroe sia mosso dall'amore, nato alla vista della giovane principessa condannata al sacrificio per espiare la superbia materna. Cupido in realtà non è presente nel racconto ovidiano, così come non vi compare il cavallo alato Pegaso, inserito in elaborazioni più tarde del mito.
Per contro, nella scena con la morte di Adone Cupido non arma l'arco ma tiene la freccia in mano e guarda gli esiti tragici della vicenda di cui non ha colpa, dato che sua madre Venere, secondo il racconto ovidiano, si era graffiata accidentalmente con la punta di una delle sue saette. Nemmeno la dea dell'amore può salvare il giovane cacciatore dalla sua inesorabile sorte.
La composizione dei dipinti evidenzia il talento di Tempesta nell'utilizzo delle diverse cromie del lapislazzuli. Nella scena marina le figure, caratterizzate da minuti dettagli, come i riflessi sullo scudo di Perseo, e dai colori vivaci dei tessuti, lasciano spazio al blu dello sfondo, che le inclusioni di pirite animano drammaticamente. Andromeda si staglia, con un gioco d'ombra, sulla roccia chiara abilmente dipinta sulla parte della lastra in cui prevale la presenza della calcite; all’orizzonte e in basso le inclusioni di pirite sono accentuate da tocchi di colore bruno, per suggerire le rocce affioranti di un'insenatura oscura e misteriosa da cui il mostro appare.
Nella Morte di Adone, la dea, sopraggiunta precipitosamente, si affaccia dall'alto del suo carro per piangere sul corpo dell'amato, reso in un magistrale scorcio e perfettamente inserito nello spazio inferiore dell'ovale. Venere è avvolta da nuvole bianche, che sfruttano il colore naturale di quella parte del supporto mentre Adone, su fondo nero, sembra ormai appartenere alla dimensione dell'oltretomba. Preziosi i particolari degli spallacci della corazza ornati da mascheroni, cosi come le fibule che trattengono il manto di Venere. II fondo blu prevale nel cielo e nel paesaggio, con rocce e piccole cascate, tra le quali si intravede un cinghiale inseguito dai cani, secondo una composizione ampiamente utilizzata dall'artista nelle sue numerose opere sul tema della caccia.
Entrambi i dipinti denotano evidenti similitudini iconografiche con due incisioni dello stesso Tempesta presenti nel celebre Metamorphoseon edito nel 1606 (The Illustrated Bartsch 1983, pp. 29, n. 677 (151), 57, n. 733, n. 151; Leuschner 2005, pp. 437-438). Particolarmente stringente è il confronto, anche compositivo, con la stampa raffigurante Venere e Adone, che ha suggerito una datazione dell'ovale non lontana tale edizione (Costamagna 2005, p. 13), ipotesi recentemente rivista alla luce della possibile provenienza dei lapislazzuli borghesiani dai lavori intrapresi nella cappella Paolina a Santa Maria Maggiore.
L'ambiente nel quale l'ovale e il suo pendant erano esposti, insieme con altre opere prevalentemente di medie o piccole dimensioni, era stato riallestito nel corso dell'ottavo decennio del XVII secolo per volere di Giovanni Battista Borghese, evidentemente destinato alla raccolta di manufatti preziosi per la loro rarità, l'originalità o il pregio dei materiali utilizzati. Oltre a diversi disegni e dipinti su rame e ai mosaici di Marcello Provenzale ancora oggi conservati in Galleria, come il Ritratto di Paolo V e l'Orfeo, si trovavano infatti qui riunite opere realizzate su supporti lapidei di vario tipo, dal diaspro alla pietra paesina, dall'alabastro al lapislazzuli. In riferimento a quest'ultimo materiale, vi si rilevano altre due pitture prive di attribuzione, sempre di soggetto mitologico e di formato ovale, una delle quali dipinta su due lati, le cui dimensioni appaiono lievemente differenti rispetto all'opera qui esaminata (Della Pergola 1965, pp. 207, 209).
Il nome di Tempesta è invece esplicitamente indicato nella descrizione di altre quattro opere di formato ovale su lapislazzuli: una Caccia, riconosciuta da Collomb (2015, pp. 116, 346, n. 79) nella Scena di caccia in collezione Alessandra Di Castro; un Battesimo di Cristo e una Entrata di Cristo in Gerusalemme nonché una scena con “Christo con gli Apostoli, tre altre figure in una Barca” (Della Pergola 1965, rispettivamente pp. 208, 209, 210). Quest'ultimo dipinto è stato identificato in collezione privata da Lohff (2015, p. 193), che lo assegna dubitativamente al pittore, rilevando la troppo frequente consuetudine di associare questa tipologia di manufatti a Tempesta, siano essi eseguiti su lapislazzuli o più in generale su pietra, stante il successo e la diffusione di questo genere anche nell’opera di altri artisti contemporanei come nel caso di Filippo Napoletano.
Del dipinto in esame si ritrova un chiaro riferimento anche nei successivi inventari, seppure con differenti attribuzioni: a Giulio Romano nel 1700 (De Rinaldis 1936, p. 204), e al Passignano ne! 1790 (De Rinaldis 1937b, p. 226). Solo nell'inventario del 1812 (S. Tarissi de Jacobis 2003, p. lll) le due opere, elencate insieme con l’ Adamo ed Eva eseguito su pergamena, conservato nella Galleria Borghese (inv. 528), vengono associate per la prima volta al nome di Antonio Tempesta: «Una tavoletta con tre miniature, una di Adamo ed Eva del Cavalier d'Arpino, e le due altre dipinte a due facce sopra lapislazzuli rappresentanti favole di Antonio Tempesta». Resta indefinito il momento dell'acquisizione dell'ovato, che potrebbe risalire a un momento ben anteriore alla fine del Seicento, soprattutto in considerazione dell'apprezzamento dimostrato da! cardinale Scipione Borghese per i manufatti in pietre policrome, oltre che per la quantità di opere commissionate a Tempesta fin dall'inizio del pontificato di Paolo V.
Il dipinto non entrò a far parte del fidecommisso del 1833 e ne! 2005 venne acquistato presso eredi della famiglia Borghese dalla Soprintendenza PSAE e per il Polo Museale della città di Roma per essere destinato alla Galleria Borghese.
Marina Minozzi