Il soggetto di questo dipinto è tratto dalle Metamorfosi di Ovidio e rappresenta Andromeda, figlia di Cefeo, sovrano di Etiopia, mentre legata a uno scoglio viene attaccata da un'orca marina inviata da Poseidone su richiesta delle Nereidi. Secondo la mitologia, infatti, la giovane vergine fu offerta in sacrificio al terribile mostro per placare l'ira delle cinquanta ninfe marine, offese dalle parole di Cassiopea, madre di Andromeda, che sosteneva di essere più bella di tutte loro.
La tela rappresenta il preciso istante in cui Perseo, dopo aver ucciso Medusa, scende a liberare la bellissima fanciulla, qui raffigurato secondo un'iconografia particolarmente cara agli artisti tra la fine del XVI e i primi decenni del XVII secolo.
Roma, collezione Borghese, 1693 (Inventario 1693, Stanza VI, n. 24); Inventario 1790, Stanza VI, n. 16; Inventario Fidecommissario Borghese 1833, p. 25. Acquisto dello Stato, 1902.
Questo dipinto entrò in collezione Borghese in data imprecisata. Si trova citato per la prima volta nell'inventario del 1693 come opera di Annibale Caracci, registrato con il numero 699 - tuttora visibile nell'angolo in basso a sinistra - come "un quadro grande con una Donna a sedere sopra uno scoglio nuda incatenata le mani con un Baleno in mare, che va per divorarla".
A partire dalla fine del Settecento, l'opera fu avvicinata a Giuseppe Cesari, detto il Cavalier d'Arpino e con tale nome catalogata sia nell'Inventario Fidecommissario del 1833, sia nel catalogo di Giovanni Piancastelli (1891) e in quello di Adolfo Venturi (1893). Muovendosi sempre nell'orbita del pittore arpinate, nel 1928 Roberto Longhi accostò la tela alla scuola romana di primo Seicento, in particolare alla maniera di Giovanni Baglione e del suo primo periodo arpinesco.
Sulla scorta di un'incisione di Bernardino Capitelli, su cui è scritto "Rutilius Manettus pinxit" (Gori Gandellini 1771, I, p. 223), nel 1932 Voss identificò l'autore della tela con il senese Rutilio Manetti, nome scartato inspiegabilmente da Aldo De Rinaldis (1937) che ricondusse l'opera alla scuola romana della fine del XVI secolo.
Restituito definitivamente al catalogo di Manetti da Paola della Pergola (1959), il dipinto fu esposto nel 1978 alla mostra sul pittore senese, datato da Alessandro Bagnoli intorno al 1612 sia per la morbidezza degli incarnati, sia per la raffinatezza di alcuni particolari, dettagli che secondo lo studioso trovano riscontro in due opere coeve, come la Decapitazione di San Paolo (Roma, Palazzo Barberini, inv. 2216) e il Riposo durante la fuga in Egitto (Kassel, Gemäldegalerie, inv. GK 967). Tale datazione è stata precisata nel 2010 da Marco Gallo che ha proposto di situare l'Andromeda tra il 1611-1612, ossia nella fase 'protonaturalista' di Rutilio in cui emerge la conoscenza della pittura del Cavalier d'Arpino.
Il soggetto raffigurato, la cui iconografia deriva da stampe carraccesche (Capitelli 2006; Gallo 2010), è tratto dalle Metamorfosi di Ovidio, in cui l'autore narra della vanità di Cassiopea, regina d'Etiopia e moglie di Cefeo, che dichiarò di essere più bella delle Nereidi, le quali si rivolsero a Poseidone chiedendogli di punire la superbia della presuntuosa sovrana. Per questo, il dio dei mari mandò un mostro a razziare le coste del regno etiope la cui sete di vendetta poteva essere placata soltanto con il sangue di una vergine. A tal proposito, quindi, il re sacrificò sua figlia Andromeda che, legata ad uno scoglio, fu offerta come vittima sacrificale al terribile mostro marino, salvata da questo triste destino dall'eroe Perseo.
Rifacendosi - secondo Della Pergola (1959, p. 39) - all'Andromeda di Tiziano Vecellio (Londra, Wallace Collection), Manetti rappresenta il momento in cui Perseo, in groppa al suo cavallo alato, vede la nobile fanciulla, incatenata a una rupe e in preda all'angoscia. Contrariamente a quanto narrato da Ovidio, il pittore decise però di ritrarre Andromeda con i capelli raccolti in un'accurata pettinatura e rassegnata al suo atroce destino, atteggiamento sottolineato dalla calma del mare su cui veleggia una barca con ignari testimoni, i cui flutti restituiscono ai piedi della principessa una natura morta di conchiglie.
Antonio Iommelli