Come suggerito dalla critica, il dipinto entrò in collezione Borghese in seguito al sequestro delle opere del Cavalier d’Arpino, ordinato da Paolo V nel 1607. La composizione rappresenta Venere sensualmente adagiata su un panno rosso, in compagnia di Amore che le cinge il capo con una corona di fiori. Alla sua destra, al di là di un davanzale su cui poggiano due colombe bianche - tipico attributo della dea - si apre un bellissimo paesaggio, caratterizzato da una cromia ricercata e brillante e da una folta vegetazione.
Cornice novecentesca (111 x 138.5 x 5 cm)
(?) Roma, Giuseppe Cesari detto il Cavalier d'Arpino, ante 1607 (De Rinaldis 1936, p. 112); (?) Roma, cardinale Scipione Borghese, 1607; Roma, collezione Borghese, 1650 (Manilli 1650, p. 98); Inventario 1693, Stanza VI, n. 24; Inventario 1790, Stanza VI, n. 17; Inventario Fidecommissario Borghese 1833, p. 25. Acquisto dello Stato, 1902.
Il quadro proviene probabilmente dalla collezione di dipinti, sequestrata nel 1607 dai fiscali di Paolo V al pittore Giuseppe Cesari, accusato di detenzione illegale di armi da fuoco. Tale ipotesi, avanzata nel 1936, fu sostenuta da Aldo de Rinaldis che identificò la tela Borghese con la "Venere con puttino con le cornici indorate", elencata sommariamente e senza nome nella Nota dei quadri sequestrati all'artista arpinate. L'opera è stata in seguito identificata sia con il dipinto segnalato nel 1650 da Iacomo Manilli ("la Venere che dorme con un Amorino in piedi, è dell'istesso Cav. Giuseppe), sia con quello citato da Domenico Montelatici nel 1700 ("una Venere che giace in terra dormendo, con un fanciullo in piedi"), le cui descrizioni - come già notato da Paola della Pergola (1959) - male si adattano all'opera pervenuta.
Il dipinto è invece debitamente descritto nell'inventario del 1693 ("un quadro di 4 p[al]mi bislongo in circa in tela con una Donna colca sopra un panno rosso nuda con un Amorino che gli mette una Corona di fiori in testa con due Palombe [...] cornice dorata del cavalier Gioseppe d'Arpino), elencato con il numero "723" tuttora visibile nell'angolo in basso a sinistra. Confusa da Adolfo Venturi (1893) con la "Venere giacente", già attribuita allo Scarsellino (inv. 206) - errore reiterato qualche anno dopo da Giulio Cantalamessa (1912) -, l'opera fu correttamente restituita al Cavalier d'Arpino da Roberto Longhi (1928) e come tale accolta da tutta la critica. Nel 1996, ragionando su alcuni dettagli, come la fisionomia del putto e il trattamento del paesaggio sullo sfondo, Patrizia Tosini ha proposto di assegnare il dipinto alla bottega dell'arpinate, da collocare nella produzione tarda del Cesari, quando il pittore fece fronte a un numero alto di commissioni ricorrendo all'aiuto del suo atelier. Secondo la studiosa, inoltre, il precedente iconografico più vicino a questa tela è la Venere con il suonatore di liuto di Tiziano (nota nelle due versioni di Cambridge e New York) - da cui la Venere Borghese si differenzia per alcuni particolari, quali l'assenza del musico e di certi attribuiti come i monili, il filo di perle e le due colombe sul davanzale - una prassi solita per il Cesari che, come attesta Manilli (1650), in più occasioni aveva replicato le opere del Vecellio, molte delle quali segnalate nella villa come "del Cavalier Giuseppe" tratte da Tiziano.
La tela rappresenta Venere, dea della bellezza, incoronata da suo figlio Amore con un serto di fiori. Adagiata sensualmente su un drappo rosso, il suo corpo bianco-rosato, simile nella resa a quello di Andromeda (Berlino, Gemäldegalerie, KFMV 282), è illuminato da una luce pallida che enfatizza la finezza e l'eleganza delle forme. Alla sua destra, al di là di un davanzale su cui poggiano due colombe bianche - tipico attributo della dea - si apre alla vista un bellissimo paesaggio, caratterizzato da una cromia ricercata e brillante e da una folta vegetazione. Secondo Tosini (1996), il soggetto potrebbe rimandare a un'allegoria matrimoniale raffigurante la novella sposa nei panni di una Venere, nuda e bella come dovrà apparire al suo futuro sposo. Il gesto della dea di tirarsi il velo sulla testa, infatti, alluderebbe alla vita matrimoniale mentre il serto di fiori offertole da Amore ne indicherebbe l'essenza amorosa e casta.
Il pittore eseguì diverse versioni di questo soggetto: due - attualmente disperse - erano documentate nel 1624 a Roma presso la quadreria di monsignor Costanzo Patrizi (Röttgen 2002), un'altra è tuttora presente in una collezione privata romana (cit.).
Antonio Iommelli