L'inventario del 1693 attribuisce la tavola a Raffaello. La sua paternità è stata tuttavia soggetta a numerose discussioni, relative anche all'identità del personaggio, definitivamente riconosciuto nel cardinale Marcello Cervini degli Spannocchi (1501-1555) eletto papa nel 1555 col nome di Marcello II e pontefice per soli 21 giorni. Il quadro, dipinto da un maestro toscano fortemente influenzato dalla ritrattistica di Raffaello, sembra opera di Jacopino del Conte, specialista di ritratti.
Collezione Borghese, citato nell’inv. 1693; Inventario Fidecommissario Borghese 1833, A, n. 84. Acquisto dello Stato, 1902.
La tavola veniva attribuita a Raffaello nell’inventario del 1693 come un «quadro di 4 palmi con un ritratto di cardinale a sedere con un libro in mano che posa sopra un tavolino con cornice dorata in tavola di Raffaello d’Urbino» (inv. 1693, n. 24). Dopo oltre un secolo, nel 1838, Antonio Nibby ricorda il ritratto del porporato nella nona stanza del celebre Palazzo della famiglia Borghese in città, assegnandolo sempre alla mano di Raffaello come «il ritratto d’un cardinale, colorito a meraviglia dal Sanzio» (Nibby 1838, p. 602).
Il dipinto in realtà vive una difficile storia critica, ad iniziare dall’individuazione del personaggio ritratto. La prima svolta avvenne grazie ad Adolfo Venturi (1893, pp. 195-196) che ricondusse lo stemma inserito nella boiserie alle spalle del cardinale, caratterizzato da un fascio di spighe, alla famiglia degli Spannocchi, riconoscendo così nel personaggio il “nobilissimo gentiluomo” Marcello Cervini, futuro papa Marcello II, nato Cervini degli Spannocchi. Quest’ultimo, discendente da una nobile famiglia toscana di Montepulciano, salì al soglio pontificio nel 1555 (termine ante quem per la realizzazione del ritratto) ed ebbe uno dei pontificati più brevi della storia, durato solo 21 giorni. Marcello con la sua famiglia faceva parte dell’Accademia delle Virtù; lo stesso Vasari lo menziona nella seconda edizione delle Vite: “Ma dopo, essendo allora in Roma un’Accademia di nobilissimi gentiluomini e signori che attendevano alla lezione di Vitruvio, fra’ quali era messer Marcello Cervini, che fu papa…” (Vasari 1568, V, p. 571). Del resto il ritratto stesso indica l’anima umanista e bibliofila del cardinale, riflettendone il gusto e l’appartenenza a nobili ideali culturali.
Per quanto riguarda la questione attributiva, tra Otto e Novecento si succedettero diverse indicazioni, da Perin del Vaga (Cavalcaselle-Crowe 1864-1866) a Pontormo (Morelli 1890, Venturi 1893, Berenson 1928) fino a Francesco Salviati (De Rinaldis 1945) e Marcello Venusti (Russo 1990 e 1993).
Furono Hermann Voss (1953, p. 251) e Iris Cheney (1954, pp. 35-41) i primi a vedere nel ritratto qualcosa di quel «raffaellismo romano» di cui fu interprete Jacopino del Conte, mentre altri proponevano un più prudente riferimento a un artista toscano attivo di stanza a Roma e influenzato dalla ritrattistica raffaellesca (Longhi 1928, p. 352; Della Pergola 1959, pp. 35-36).
La Cheney in particolar modo riconosceva nelle «ciocche sciolte e pesanti dei capelli, il deciso naso adunco, la barba folta che quasi nasconde la fessura della bocca» i caratteri tipici della ritrattistica di Jacopino del Conte databile tra la fine degli anni ’30 e il principio degli anni ’40 del Cinquecento (Ead. 1970, p. 40). Del resto, la vicinanza stilistica con un altro ritratto eseguito dal pittore negli stessi anni, quello di Antonio da Sangallo, attribuito da Cheney e confermato dagli studi successivi (oggi conservato alla Pinacoteca di Brera), potrebbe indurre a credere che l’amicizia e la stima tra il cardinale e l’architetto, testimoniata da alcune lettere private, abbia favorito una mediazione tra il cardinale stesso e Jacopino (Corso 2014, p. 185; cfr. Niccolò 2004, pp. 54, 70-71).
L’attribuzione a Jacopino, nonostante lo scetticismo di Vannugli (1992) e la mancanza di documenti certi, venne sostenuta da Costamagna (1994, pp. 319-320), Lucantoni (2006, pp. 66-67) e Donati (2010, pp. 153-154), e ci sembra poter essere quella più convincente. Che il ritratto a cui si fa riferimento in una lettera di Paolo Giovio indirizzata al segretario di Marcello, Bernardino Maffei, e realizzato proprio da Jacopino del Conte, sia la tavola Borghese non se ne ha certezza (Giovio 1956-58, p. 348; cfr. Corso 2014, p. 184).
Il dipinto dunque, se compreso in quell’esiguo corpus di ritratti conosciuti della produzione del pittore fiorentino, dimostrerebbe una raggiunta maturità stilistica in un genere che era stato codificato da Sebastiano del Piombo in gara con Raffaello. L’opera infatti risulta piena di squisiti dettagli: dal libro che il cardinale tiene tra le mani alla finta architettura sullo sfondo, passando per la tonalità calda della veste, l’arabesco del tappeto (secondo M. Lupo un Ushak chiamato anche Lotto, 2009 pp. 250-251) fino alle fattezze del volto, caratterizzato da una folta barba e copiosi riccioli curati e, soprattutto, dalla profondità dello sguardo del futuro papa, severo e quasi malinconico, denotano una mano talentuosa e una certa raffinatezza ritrattistica.
Gabriele de Melis