La testa calva, con la fronte attraversata da rughe poco incise, le sopracciglia increspate, profondi solchi naso labiali e bocca dal prolabio evidente sono caratteristiche comunemente associate dagli artisti alla figura dell’imperatore Servio Sulpicio Galba (68-69). Non è noto il nome dell’autore del busto, che si dovette servire delle descrizioni antiche – primo fra tutti Svetonio –, delle effigi monetarie e degli studi di eruditi ed antiquari per ricostruire la fisionomia dell’imperatore del quale all’epoca non erano noti ritratti scultorei. Il busto appartiene a una serie di 16, tutti in porfido e alabastro, esposti fino al 1830 circa nel Palazzo Borghese e dal 1732 documentati nella villa Pinciana.
Il busto, raffigurante Servio Sulpicio Galba, l’imperatore salito al trono alla morte di Nerone e deposto e ucciso dopo pochi mesi nel 69, è rappresentato frontalmente con indosso il paludamentum appuntato sulla spalla destra con una fibula tonda, sopra alla corazza e a una veste dalle maniche corte. La testa è calva, la fronte è attraversata da rughe poco profonde, le sopracciglia increspate sopra gli occhi – non perfettamente simmetrici e inclinati verso l’esterno – suggeriscono un’espressione carica di preoccupazione e rassegnazione, profondi solchi naso labiali inquadrano la bocca ben definita dal prolabio profondamente scavato. Nel collo, solcato dai tendini contratti, è ben evidenziato il pomo d’Adamo.
Ormai settantaduenne quando salì al trono, stando al racconto di Svetonio Galba era calvo, aveva naso aquilino e occhi cerulei (Vit., VII, 21). Oltre agli scarsi cenni descrittivi delle fonti letterarie, la ricostruzione del suo aspetto era affidata quasi esclusivamente alle monete, dal momento che nessun ritratto antico certamente suo ci è giunto (Felletti Maj 1960, pp. 757-758). L’ignoto autore del busto deve aver guardato quindi ai vari testi pubblicati nel corso del Cinquecento allo scopo di ricostruire le fisionomie degli uomini illustri del passato: una somiglianza evidente la si riscontra con il volto di Galba presente nelle Effigies viginti quatuor Romanorum imperatorum (tav. VII), variamente attribuito a Fulvio Orsini o Onofrio Panvinio.
L’opera fa parte di una serie di sedici busti in porfido e alabastro provenienti dal Palazzo Borghese in Campo Marzio: riproducenti i Dodici Cesari narrati da Svetonio con l’aggiunta di Nerva e Traiano, di un secondo Vitellio e di un altro Tito, erano collocati all’interno delle nicchie della galleria e circondati da una decorazione con rilievi in stucco raffiguranti episodi salienti della vita di ciascuno e personificazioni delle rispettive virtù, eseguita da Cosimo Fancelli tra il 1674 e il 1676 (Hibbard 1962). In tale collocazione la serie è documentata fino al 1830 (Nibby, p. 360), per poi figurare tra le opere esposte nella sala IV della Villa Pinciana nel 1832 (Nibby 1832, p. 96), con una diversa composizione e l’aggiunta di un altro Vespasiano, eseguito da Tommaso Fedeli nel 1619, proveniente dalla sala del Gladiatore.
Stando ai documenti conservati nell’Archivio Borghese la serie era composta, come detto, dai “Dodici Cesari” con l’aggiunta di Nerva e Traiano, di un secondo Vitellio e di un altro Tito (ASV, AB, b. 5688, n. 15, pubblicati in Hibbard 1962, appendice, doc. I, pp. 19-20). Nel 1830 Nibby li identifica– ancora in Campo Marzio – come “16 busti con teste di porfido, rappresentanti i 12 Cesari e 4 consoli”, e due anni dopo quando ormai sono esposti lungo le pareti della sala IV, li elenca come Traiano, Galba, Claudio, Otone, Vespasiano (2 esemplari), Scipione Africano, Agrippa, Augusto, Vitellio (2 esemplari), Tito, Nerone, Cicerone, Domiziano, Vespasiano, Caligola e Tiberio. Se l’ultima citazione – comprendente anche un secondo Vespasiano, eseguito da Tommaso Fedeli nel 1619, proveniente dalla sala del Gladiatore – è quella che corrisponde allo stato attuale della serie (e trova conferma nell’Inventario Fidecommissario del 1833), resta difficile comprendere che fine abbiano fatto i ritratti di Cesare, Tito e Nerva, presenti nel 1674-76 e non più rintracciabili nella serie attuale, chi fosse il quarto console indicato da Nibby nel 1830, dal momento che oggi ve ne sono solo tre (Agrippa, Cicerone e Scipione Africano) e quale sia la provenienza di questi ultimi. Appare quindi ipotizzabile che i busti utilizzati nella galleria – già presenti nel Palazzo Borghese – non corrispondessero ai personaggi previsti nel programma iconografico della volta e che questa difformità abbia in seguito complicato l’identificazione dei ritratti. A sostegno di questa ipotesi è anche la datazione dell’insieme, che la critica è concorde nel ritenere eseguito contemporaneamente nel XVII secolo (Faldi 1954, pp. 16-17; Della Pergola, 1974; Moreno, C. Stefani,2000, p. 129; Del Bufalo 2018, p. 116).
Sonja Felici