Eseguito da Cosimo Fancelli nel 1676 come integrazione di una serie di ritratti di imperatori romani da lui inseriti nella decorazione della Galleria degli Specchi del Palazzo Borghese in Campo Marzio, il busto riproduce le fattezze che per lungo tempo sono state erroneamente attribuite ad Aulo Vitellio Germanico. Il volto con le guance cadenti e il doppio mento, le labbra serrate e le sopracciglia contratte sono citazione diretta del modello antico, del quale determinarono lo straordinario successo presso gli artisti e i committenti, come testimoniato in questo caso dal fatto che nella serie era già presente un Vitellio.
L’imperatore Vitellio ha la testa rivolta a sinistra, la direzione del suo sguardo è sottolineata dalla presenza dell’iride incisa, il volto ha le guance cadenti e il doppio mento. Le labbra serrate e le sopracciglia leggermente aggrottate ne restituiscono l’indole volitiva e decisa. Indossa la lorica, la corazza corta che copriva solo petto e addome, decorata al centro del busto da un volto mostruoso con piccole ali alle tempie e la bocca aperta a mostrare la lingua, che ricorda le raffigurazioni di Medusa diffuse in ambito greco ed etrusco. Sotto la corazza è visibile una veste dalle corte maniche sfrangiate.
Il busto riproduce le fattezze del cosiddetto “Vitellio” del Museo Archeologico di Venezia, rinvenuto a Roma agli inizi del Cinquecento e a lungo erroneamente ritenuto il ritratto di Aulo Vitellio Germanico, che regnò per qualche mese nel 69, per via di una certa somiglianza con l’effigie monetale dell’imperatore e dell’aspetto pingue che ben corrispondeva al ritratto di uomo dedito ai piaceri della vita lasciatone da Svetonio.
Si tratta con ogni probabilità del secondo busto di Vitellio, scolpito da Cosimo Fancelli nel 1676 per inserirlo nella decorazione della Galleria degli Specchi del Palazzo Borghese in Campo Marzio. Dalla lettura del documento di pagamento (Hibbard 1962, doc. I, p. 20), l’intervento dell’artista sembrerebbe limitato al rifacimento del busto, ma le caratteristiche esecutive della testa e la presenza dell’iride – caso unico nella serie – potrebbero confermare che Fancelli abbia eseguito l’intero insieme, come già affermato da Hibbard.
L’opera fa parte di una serie di sedici busti in porfido e alabastro provenienti dal Palazzo Borghese in Campo Marzio: riproducenti i Dodici Cesari narrati da Svetonio con l’aggiunta di Nerva e Traiano, di un secondo Vitellio (eseguito da Cosimo Fancelli) e di un altro Tito, erano collocati all’interno delle nicchie della galleria e circondati da una decorazione con rilievi in stucco raffiguranti episodi salienti della vita di ciascuno e personificazioni delle rispettive virtù, eseguita da Cosimo Fancelli tra il 1674 e il 1676 (Hibbard 1962). In tale collocazione la serie è documentata fino al 1830 (Nibby, p. 360), per poi figurare tra le opere esposte nella sala IV della Villa Pinciana nel 1832 (Nibby 1832, p. 96), con una diversa composizione e l’aggiunta di un altro Vespasiano, eseguito da Tommaso Fedeli nel 1619, proveniente dalla sala del Gladiatore.
Stando ai documenti conservati nell’Archivio Borghese la serie era composta, come detto, dai “Dodici Cesari” con l’aggiunta di Nerva e Traiano, di un secondo Vitellio e di un altro Tito (ASV, AB, b. 5688, n. 15, pubblicati in Hibbard 1962, appendice, doc. I, pp. 19-20). Nel 1830 Nibby li identifica– ancora in Campo Marzio – come “16 busti con teste di porfido, rappresentanti i 12 Cesari e 4 consoli”, e due anni dopo quando ormai sono esposti lungo le pareti della sala IV li elenca come Traiano, Galba, Claudio, Otone, Vespasiano (2 esemplari), Scipione Africano, Agrippa, Augusto, Vitellio (2 esemplari), Tito, Nerone, Cicerone, Domiziano, Vespasiano, Caligola e Tiberio. Se l’ultima citazione – comprendente anche un secondo Vespasiano, eseguito da Tommaso Fedeli nel 1619, proveniente dalla sala del Gladiatore – è quella che corrisponde allo stato attuale della serie (e trova conferma nell’Inventario Fidecommissario del 1833), resta difficile comprendere che fine abbiano fatto i ritratti di Cesare, Tito e Nerva, presenti nel 1674-76 e non più rintracciabili nella serie attuale, chi fosse il quarto console indicato da Nibby nel 1830, dal momento che oggi ve ne sono solo tre (Agrippa, Cicerone e Scipione Africano) e quale sia la provenienza di questi ultimi. Appare quindi ipotizzabile che i busti utilizzati nella galleria – già presenti nel Palazzo Borghese – non corrispondessero ai personaggi previsti nel programma iconografico della volta e che questa difformità abbia in seguito complicato l’identificazione dei ritratti. A sostegno di questa ipotesi è anche la datazione dell’insieme, che la critica è concorde nel ritenere eseguiticontemporaneamente, nel XVII secolo (Faldi 1954, pp. 16-17; Della Pergola, 1974; Moreno, C. Stefani,2000, p. 129; Del Bufalo 2018, p. 116).
Sonja Felici