Il dipinto, già in deposito presso il museo di Torre del Garigliano di Minturno, è andato disperso durante la Seconda Guerra Mondiale, depredato insieme ad altri beni nel 1943.
Attribuito dalla critica al pittore fiorentino Jacopino del Conte, raffigura Giulia Gonzaga, moglie di Vespasiano Colonna conte di Fondi, cittadina laziale dove la ricca e colta nobildonna riunì un cenacolo di raffinati intellettuali. Nota per la sua bellezza ed intelligenza, frequentò importanti personalità dell'epoca, tra cui Vittoria Colonna, Reginald Pole e Bernardo Ochino, attirando su di sé le ombre dell'Inquisizione.
Roma, collezione Borghese, 1693 (Inventario 1693, Stanza VIII, n. 45); Inventario 1790, Stanza IX, nn. 7-8; Inventario Fidecommissario Borghese 1833, p. 36. Acquisto dello Stato, 1902.
La provenienza di questo ritratto è purtroppo ignota. Il dipinto, infatti, insieme al Ritratto di Francesca Sforza di Santa Fiora (inv. 100), è documentato in collezione Borghese soltanto a partire dal 1693, elencato nel relativo inventario come "un quadro di 5 palmi in lavagna con un ritratto di donna del n. 720" (Inv. 1693), numero in passato visibile in basso a sinistra. Attribuito a Sebastiano del Piombo (Ivi), tale nome fu ripetuto sia negli elenchi fidecommissari ottocenteschi (1833), sia da Giorgio Bernardini (Id. 1910) che nel 1910 scartò la paternità bronzinesca suggerita dall'estensore dell'inventario settecentesco (Inv. 1790), accettata però da Adolfo (Id. 1893) e Lionello Venturi (Id. 1909). Scartando entrambe queste proposte, nel 1948 Federico Zeri avvicinò l'opera a Jacopino del Conte (Zeri 1948), parere confermato sia dall'Hofmeister (1954), sia da Paola della Pergola che nel 1959 pubblicò il quadro come opera autografa del pittore fiorentino, nome accettato unanimemente da tutta la critica (si veda da ultimo Hermann Fiore 2006).
Nel 2018, in un saggio su Leonardo Grazia di Pistoia, Michela Corso (Corso 2018) ha proposto di avvicinare la lavagna Borghese alla tarda produzione romana dell'artista toscano quando, sulla scorta delle coeve sperimentazioni di Jacopino, il pittore stava guardando con interesse alla produzione del maestro veneziano. Questa strada, condivisa anche da chi scrive (Iommelli 2022), fu percorsa indirettamente anche da Paola della Pergola (Della Pergola 1959) che, accogliendo l'attribuzione a Jacopino espressa da Zeri, rilevava analogie tra questo ritratto e la Lucrezia Borghese (inv. 075) - oggi unanimemente attribuita al Grazia.
Il primo a riconoscere la dama qui ritratta con Giulia Gonzaga fu Antonio Sorrentino (1932), identità riaffermata in occasione della Mostra Iconografica allestita a Mantova nel 1937 (Giannantoni 1937; Bertelli 2014) e accolta definitivamente nel 1959 da Della Pergola (Ead. 1959). Come suggerito dalla critica, l'opera deriverebbe dal Ritratto di Giulia Gonzaga di Sebastiano del Piombo (Wiesbaden, Wiesbaden Museum; cfr. Bertelli 2016) che dipinse la nobildonna mantovana rivolta verso sinistra mentre regge all'altezza del seno uno zibellino da mano, modello in seguito citato anche dall'esemplare di Lipsia (Bertelli 2016).
La fortuna del prototipo sebastianesco (cfr. Della Pergola 1959; Bertelli 2016) e il supporto utilizzato analogo a quello del Ritratto di Francesca Sforza di Santa Fiora, col quale è da sempre associato, lasciano immaginare la loro comune provenienza da una medesima collezione, forse parte di un nucleo più ampio raffigurante ritratti di donne belle e famose, realizzati - come è noto - da artisti di grande fama e riprodotti in serie per le collezioni più importanti dell'epoca. Secondo chi scrive (Iommelli 2022), potrebbero provenire dalla raccolta di Camilla Orsini, vedova di Marcantonio Borghese, rinchiusasi dopo la morte del marito in un convento romano. La donna, infatti, nipote di Paolo Giordano I Orsini, quest'ultimo figlio di Francesca Sforza di Santa Fiora, potrebbe aver ricevuto in eredità il ritratto della sua lontana parente, pendant per genere, misure e supporto a quello della bella Gonzaga, due donne considerate un modello di virtù per le sfortunate vedove dell'epoca e per questo care alla principessa Orsini.
Antonio Iommelli