Il dipinto è copia dell'originale di Raffaello, anch'esso appartenuto alla collezione Borghese fino al tardo XVIII secolo e oggi conservato alla National Gallery di Londra, la cui fortuna è comprovata dalle numerose copie. Il quadro Borghese giunse successivamente in collezione; attribuito nel XIX secolo a Giulio Romano, è ora riferito ad ambito romano.
Roma, Collezione Borghese, Inventario Fidecommissario Borghese 1833, p. 9. Acquisto dello Stato, 1902.
La tela è copia dell’originale di Raffaello, pressocché unanimemente riconosciuto nella tavola conservata presso la National Gallery Londra (inv. NG 27) e appartenuta al cardinale Borghese. Il pontefice Giulio II vi è ritratto di tre quarti, su uno sfondo verde e seduto su una sedia rivestita di velluto rosso con lo schienale elegantemente decorato da frange e concluso con elementi a forma di ghianda, simbolo araldico della famiglia della Rovere. Indossa il camauro e la mozzetta in velluto rosso profilati di ermellino e la veste bianca in finissimo tessuto plissettato. Il volto profondamente segnato incorniciato dalla barba bianca, l’espressione provata e lo sguardo intensamente riflessivo collocano l’esecuzione dell’originale, che si ritiene eseguito nel 1511, nel momento storico legato alle vicende della perdita della città di Bologna a opera dei Francesi e alla malattia che aveva colpito l’anziano pontefice. E tuttavia, dal gesto delle mani preziosamente ornate, l’una serrata sul bracciolo l’altra che stringe con eleganza il fazzoletto, l’immagine del pontefice, sintesi di naturalezza e ufficialità, lascia trasparire i segni della propria potenza e determinazione.
Il dipinto originale fu donato da Giulio II alla chiesa di S. Maria del Popolo, patronato dei della Rovere, dove il ritratto veniva esposto durante le celebrazioni solenni insieme con un’altra opera dell’artista urbinate, la celebre Madonna di Loreto (Chantilly, Musée Condé, inv. 68; Gould 1970; Shearman 2003, p. 945). Nel 1591 il cardinal nepote del neoeletto Gregorio XIV, Paolo Emilio Sfondrati, acquisì i due preziosi dipinti trasferendoli nella sua collezione, che nel 1608 fu acquistata in toto dal cardinale Scipione Borghese. Il ritratto rimase nella collezione fino alla fine del XVIII secolo e risultava contrassegnato con il numero 118 nell’inventario del 1693 (Della Pergola 1965, III, p. 203, n. 448), ancora visibile sul bordo inferiore della tavola, elemento, quest’ultimo, che permise a Gould l’identificazione della provenienza del dipinto acquistato dalla National Gallery di Londra nel 1824 (Gould 1970).
L’opera, registrata per la prima volta nel fidecommisso del 1833, era segnalata all’interno di un elenco di quadri genericamente indicati da un archivista di casa Borghese come acquisizioni ottocentesche (Costamagna 2003; Tarissi de Jacobis 2003). Indicazioni più precise, recentemente rinvenute, sono attualmente in corso di stampa.
La straordinaria fortuna dell’invenzione raffaellesca, determinante nella storia della ritrattistica ufficiale, è comprovato dalla grande quantità di copie segnalate da diverse fonti ottocentesche (Longhena, in Quatremère de Quincy 1829; Platner 1842; Passavant 1860; Gruyer 1881), che non rendono semplice l’individuazione della provenienza dell’opera. All’epoca la versione autografa era prevalentemente ritenuta essere quella della Galleria degli Uffizi (inv. 1890 n.1450). Piancastelli (1891) affermava che la tela in collezione fosse con ogni probabilità da identificare con quella vista da Richardson nel 1816 presso palazzo Caffarelli (cfr. Longhena 1828, p. 132 in nota) probabilmente per l’antica appartenenza a quella famiglia del cardinale Scipione Borghese, nato Caffarelli; ipotesi superata da Magnanimi (1980, p. 122 Bc) che ha precisamente ricostruito il percorso di quel dipinto, acquistato nel 1762 dal cardinale Neri Maria Corsini e oggi presso la Galleria Nazionale d’arte antica, Galleria Corsini (inv. 134; A. Cosma in Raffaello e l’Antico 2023, pp. 222-223, n. 96).
Nel corso del XIX secolo l’attribuzione della tela rimase essenzialmente quella a Giulio Romano, seppure con diverse declinazioni: Platner (1842) riferiva che l’opera gli era attribuita senza alcuno specifico fondamento; Passavant (1862) la riteneva di esecuzione “ferma ma un po’ dura”, mentre De Toulgoët (1867) la giudicava “copia del ritratto di Giulio II, di Raffaello, fatta da Giulio Romano, bella quasi quanto l’originale”, mentre Barbier de Montault la riferiva semplicemente al pittore mantovano. Venturi (1893), poi seguito da Longhi (1928), la ritenne “Buona copia antica di mano veneziana…come l’altra della galleria Pitti, di un maestro veneziano, per fattura tizianesco e forte di colorito”, oggi effettivamente riconosciuta come copia di Tiziano (Palazzo Pitti, inv. Palatina 79). Ciò non impedì che nell’estimo per la vendita allo Stato compilato da Venturi e Piancastelli l’opera comparisse sotto il nome di Raffaello, ma con il più realistico valore di 5.000 lire, certamente non corrispondente all’attribuzione. Anche negli studi successivi (Della Pergola 1955; Oberhuber 1970; Barberini in Raffaello nelle raccolte Borghese, 1984, p. 55; Meyer zur Capellen 2008) l’attribuzione a Giulio Romano risulta abbandonata, considerato anche lo stato di conservazione della tela che rende difficile una precisa analisi stilistica.
Iscritto nel 1833 tra i capolavori della collezione nella “Nota A” del fidecommisso, dopo il trasferimento delle opere presso la villa Pinciana l’opera venne collocata nella sala dedicata alle opere di Raffaello e della sua scuola (Venturi 1893).
Rispetto alla tavola di Londra il dipinto della Galleria Borghese presenta uno spazio maggiore tra la mano sinistra e il margine destro del supporto. Precisi i dettagli delle frange, i cui fili dorati appaiono preziosamente intrecciati; fedele, con minime variazioni, la riproduzione degli anelli con pietre di straordinaria grandezza. Le lumeggiature sul velluto della mozzetta sono più marcate e sottolineate da pennellate bianche non presenti nell’originale. Lo sfondo, che nella stesura iniziale del dipinto di Londra riportava il motivo delle chiavi incrociate, ricoperto in corso d’opera dallo stesso Raffaello e tale da imprimere profondità alla posizione angolare dell’effigiato, nella copia risulta più piatto così come la fascia verticale scura, fortemente marcata e priva di sfumature. Non è tuttavia da escludere che il dipinto abbia perso, nel corso di precedenti restauri, le originali velature. È inoltre recentemente emerso che il perimetro della tela era stato coperto da una consistente ridipintura, resasi forse necessaria in seguito a un ampliamento delle dimensioni del dipinto. Sul retro è presente una iscrizione eseguita a pennello sulla tela originale, ora coperta dal tessuto della rifoderatura eseguita nel 1958 da Paolo degli Esposti ma ancora in parte visibile, nella quale si leggono i caratteri “Bar Mattei/ n°. 20”.
Marina Minozzi