Il dipinto può essere identificato con quello citato negli elenchi fedecommissari del 1833 con un'attribuzione alla scuola di Tiziano. Genericamente riferita all'ambiente veneziano, l'opera - seppure rovinata e con cospicue cadute di colore - appare vicina a una tipologia di ritratto ancora quattrocentesca.
La donna, forse una vedova, è qui rappresentata di tre quarti, contro uno sfondo scuro, con un velo nero intorno al capo.
Salvator Rosa (cm 43 x 93,5 x 4)
Roma, collezione Borghese, 1833 (Inventario Fidecommissario Borghese 1833, p. 29; Della Pergola 1955) Acquisto dello Stato, 1902.
La provenienza di questa tela è ignota. L'opera, infatti, è documentata nella raccolta Borghese solo dal 1833, citata nei relativi elenchi fedecommissari come 'Maniera di Tiziano'. Tale descrizione, ripresa senza riserve nelle Note manoscritte di Giovanni Piancastelli (1891), fu in parte rivista da Adolfo Venturi (1893) eliminando qualsiasi riferimento al Vecellio e pubblicando il ritratto come 'Scuola veneziana'. Considerata a detta di Paola della Pergola (1955) un'opera ancora legata a moduli della pittura quattrocentesca, la studiosa pubblicò la testa come 'Maestro veneto', ambito allargato da Kristina Herrmann Fiore (Ead. 2006) alla terraferma. In effetti, questo ritratto, di buona mano - forse un frammento di una composizione più vasta - mostra i modi di un pittore veneto dell'entroterra, influenzato certamente da modelli quattrocenteschi, non lontani dalla produzione matura di Cosmè Tura, da cui sembra riprendere quella costruzione geometrica e vigorosa delle forme, indagata con quel piglio fiammingo qui visibile nella resa minuta dell'epidermide e dei segni della vecchiezza.
Antonio Iommelli