Il dipinto, nato come sovrapporta, è cronologicamente riferibile al periodo in cui il pittore operò nel Palazzo Borghese a Campo Marzio, commissionato nel 1617 da Marcantonio Borghese.
L’opera testimonia il gusto del pittore per l’osservazione della realtà, restituita attraverso le suggestioni mutuate dal mondo fiammingo e caravaggesco, come risulta dalla piccola natura morta in primo piano, dove si esalta la resa minuziosa dei dettagli, come l’intreccio della fiasca di vimini.
Salvator Rosa, 130 x 193 x 10 cm
Roma, collezione Marcantonio Borghese, 1617 (Della Pergola 1959, pp. 95-96, n. 135); Inventario 1790, Stanza V, n. 29; Inventario Fidecommissario Borghese 1833, p. 21. Acquisto dello Stato, 1902.
Il dipinto fu eseguito come soprapporta per Marcantonio Borghese che chiese a Giovan Francesco Guerrieri nel 1617 di realizzare questa tela e il suo pendant - un "S. Christofano" - per decorare una delle sale di Palazzo Borghese di Ripetta (Della Pergola 1956; Fumagalli 1997). Qui la tela dovette rimanere almeno fino alla prima metà del Seicento poiché Iacomo Manilli, che descrisse la villa nel 1650, non ne fa alcuna menzione. Nel 1700, invece, come attestato dalle parole di Domenico Montelatici (1700, p. 211), il quadro fu portato presso il Casino di Porta Pinciana, descritto dal noto autore come "[...] S. Rocco a giacere in habito da pellegrino, appoggiato sul gomito, e rivolto con la faccia al Cielo, toccando col dito indice della sinistra la piaga, che ha nella coscia di maniera molto stimata".
Inventariato come opera di ambito bolognese nel 1790, il dipinto fu avvicinato dall'estensore degli elenchi fidecommissari del 1833 alla scuola dei Carracci, giudizio accolto positivamente sia da Giovanni Piancastelli (1891, p. 211), sia da Adolfo Venturi (1893, p. 70) che accennò timidamente a Giovanni Lanfranco. Ritenuto di "un cattivo guercinesco" da Giulio Cantalamessa (1912, p. 69), il quadro fu messo in rapporto con i modi di Dirck van Baburen da Roberto Longhi (1928) che giustamente vi individuò "ricordi dell'arte fiamminga di trapasso mista di manieristico e protorubensiano"; riconosciuti in buona parte anche da Aldo De Rinaldis (1937, p. 326) che assegnò il San Rocco a un pittore olandese. Come per Lot e le figlie (inv. 45), a mettere un punto alla questione fu Paola della Pergola (1959, pp. 95-96) che, grazie a un documento dell'Archivio Borghese (Della Pergola 1956, pp. 225-228), restituì senza alcun dubbio l'opera al pittore marchigiano la cui straordinaria cultura figurativa, ricca di esperienze romane, toscane e fiamminghe, fu alla base dei molti pareri contrastanti sorti intorno al dipinto.
La tela rappresenta il santo di Montpellier, ritratto nelle vesti di un pellegrino secondo quanto riportato dai testi agiografici. Sdraiato come un qualsiasi popolano, il taumaturgo è dipinto in un momento di riposo mentre con un dito si sta toccando una piaga, segno del terribile flagello della peste che costrinse Rocco a rifugiarsi in un luogo isolato lungo il fiume Trebbia, dove un cane si prese cura di lui, portandogli quotidianamente un pezzo di pane. Questo tema, caro alla pietà dei fedeli, fu tradotto dal pittore con una forte vena naturalistica conferendo alla scena un tono rustico, enfatizzato tra l'altro da una pennellata torbida (cfr. Emiliani 1997) e dall'uso di una luce calda che mette in evidenza i segni lasciati dal tempo sul corpo del santo, donando una certa matericità alle stoffe e alla natura morta in primo piano.
Un pagamento al corniciaio doratore Annibale Durante, datato 1618 (Della Pergola 1959; Fumagalli 1997) attesta che a tale data il dipinto era stato già ultimato.
Antonio Iommelli