Il dipinto, donato nel 1924 alla Galleria Borghese, è stato attribuito al pittore napoletano Pacecco de Rosa. Raffigura la martire Agata, ritratta a mezzo busto, mentre con un panno copre delicatamente i seni che secondo la tradizione le furono brutalmente strappati con due grosse tenaglie per non aver abiurato la religione cristiana. La vergine, infatti, dopo aver consacrato la propria vita a Cristo incontrò Quinzano, il proconsole della regione siciliana, che invaghitosi perdutamente della sua bellezza provò con tutti i mezzi a piegarla al proprio volere, senza però riuscirci.
Roma, collezione Castellano, ante 1924 (Della Pergola 1955); Roma, collezione Borghese, 1924.
Donato al museo nel 1924 dalla famiglia Castellano, il dipinto fu reso noto per la prima volta da Paola della Pergola che nel 1955 accettò l'attribuzione al pittore napoletano Pacecco de Rosa, con la quale il quadro era giunto in Galleria. Secondo la studiosa, infatti, quest'opera mostra diversi punti di contatto con le mezze teste eseguite dall'artista, rivelando però "un'esecuzione piuttosto modesta". Tale parere, accettato da Kristina Herrmann Fiore (2006), è stato indirettamente respinto da Vincenzo Pacelli (2008) che nella monografia su Pacecco non fa alcun accenno alla tela Borghese.
L'opera raffigura Agata, vergine catanese, mentre con le mani preme delicatamente un panno bianco sui seni appena recisi. La martire non mostra alcun segno di sofferenza bensì un atteggiamento freddo e distaccato, sottolineato dalla bocca serrata e dallo sguardo rivolto verso il basso che sembra voler indurre l'osservatore a meditare sul fatto appena accaduto.
L'opera, il cui stile ben si addice al catalogo del pittore, fu con buona probabilità eseguita all'interno della sua nutrita bottega dove numerosi allievi produssero dipinti di ottima qualità unendo il naturalismo di chiara matrice napoletana con le tendenze importate da Guido Reni e dai pittori emiliani attivi a Napoli.
Antonio Iommelli