Restaurata intorno al 1828 da Antonio d’Este, la scultura conserva di antico solo i corpi contrapposti. Le tre figure femminili sono accostate ad un pilastro a forma di cesto, kalathos, sormontato da un elemento vegetale di restauro. Le donne indossano un lungo chitone con peplo stretto sotto il seno da un nodo. L’opera raffigura il tipo iconografico di Ecate nella sua forma trimorfa. Le numerose fonti antiche tramandano un carattere ambivalente della dea, vale a dire provvisto sia di una connotazione negativa, legato agli aspetti oscuri della religione e a riti magici notturni, sia di una benevola, come protettrice della casa e benefattrice degli uomini.
La scultura si può ritenere una replica di epoca romana, risalente al II secolo d.C., di un archetipo attribuito allo scultore Alcamene, operante ad Atene nel V secolo a.C.
Collezione Borghese, citato per la prima volta nell’inventario del 1762 (AAV, Archivio Borghese, Busta 1007); Inventario Fidecommissario Borghese 1833, C., p. 54, n. 192. Acquisto dello Stato, 1902.
“a te, o dea, volgerò il mio sommesso canto,
e a Ecate sotterranea, che atterrisce anche i cani,
quando avanza fra le tombe dei morti e il nero sangue”
Teocrito (Idilli II, vv. 10-16)
Le tre figure femminili poggiano con la parte posteriore a un capitello a forma di cesto, il kalathos, di restauro. La parte superiore di questo elemento sovrasta le teste, allargandosi in due svasature sormontate da un fiore. Le donne indossano un chitone lungo fino ai piedi e un peplo con apoptygma cinto da un nodo sotto il seno. Il gruppo scultoreo conserva di antico solo i corpi contrapposti, mentre sono moderne le teste, le braccia quasi per intero, il kalathos e l’elemento vegetale soprastante. I volti raffigurano le tre età della dea.
La scultura è presente nell’Inventario della Villa Pinciana e del Casino del Graziano del 1762 come “gruppo di tre statue di marmo, che rappresentano tre dee con braccia stese, nelle quali mancano alcune dita” (AAV, Archivio Borghese, Busta 1007). Nel 1828 compare come “Diana Triforme a guisa di candelabro” nelle indicazioni della Quarta Nota, inviata da Giuseppe Gozzani al principe Camillo Borghese, tra le opere affidate per i restauri ad Antonio D’Este (Moreno, Sforzini 1987, p. 360). Nel 1832 Antonio Nibby la cita nella sala VIII: “gruppo di tre figure muliebri, stanti, una addossata all’altra e rivestite di tunica talare, nelle quali sembra essersi volute rappresentare le tre età, siccome ne’ lineamenti nel volto di ciascuna ravvisatesi, cioè la gioventù, la età media, e la vecchiezza” (Nibby 1832, pp. 122-123). Già nella Indicazione del 1840 il gruppo si ritrova nella sua attuale collocazione, nella sala VI (p. 21, n. 7).
Nata secondo la testimonianza esiodea, la più antica, dal titano Perse e Aristeia, sorella di Latona, Ecate subisce nel corso dei secoli una mutazione nelle prerogative e nei tratti caratteristici. Nella Teogonia è la dea “che al di sopra di tutti Zeus Cronide tenne in onore: a lei diede splendidi doni, di aver cioè parte della terra e del mare splendente. Non solo, ma ella ricevette anche onore nel cielo stellato, e viene onorata moltissimo dagli dei immortali” (vv. 411-415). Nell’opera esiodea la dea è raffigurata come divinità benevola e potente, attributi che probabilmente aveva già in Asia Minore, terra di origine del culto, e che manterrà fino alla diffusione in Grecia in epoca arcaica (Serafini 2015, p. 43). L’Inno omerico a Demetra la pone in relazione al mondo ctonio in quanto aiuta la dea a ritrovare la figlia Persefone, rapita da Ade, facendo sì che ella possa rimanere due stagioni su tre con la madre. “Da allora, la dea è compagna e consigliera di Persefone” (Inno a Demetra, v. 440).
A partire dalla seconda metà del V secolo a.C. Ecate viene presentata dagli autori della letteratura come una maga dall’aspetto spaventoso e dalla valenza oscura e nefasta, alla quale venivano dedicate cerimonie di purificazione con il sacrificio di cani.
Apollonio Rodio, poi, così ci presenta Giasone quando, secondo le indicazioni di Medea, chiede aiuto alla dea: “Poi (Giasone) scavò nel terreno una fossa di un cubito, e ammucchiata la legna, tagliò la gola all’agnella e la distese là sopra, poi diede fuoco alla legna, mescolò e versò le libagioni, invocando Ecate Brimò in aiuto alle sue imprese. Quando l’ebbe invocata, tornò indietro. La dea tremenda l’udì e dai recessi profondi venne a ricevere l’offerta. Il capo era cinto di spaventosi serpenti, intrecciati con rami di quercia: lampeggiava l’immenso bagliore delle sue fiaccole; d’intorno ululavano con acuti latrati i cani infernali” (Argonautiche, vv. 1207-1217).
In Grecia Ecate era inoltre venerata per la sua varietà di manifestazioni nei luoghi di passaggio con la collocazione di piccole statue, gli hekataia, ampiamente trattate nello studio di T. Kraus del 1960 e in quello di N. Werth del 2006. Esse erano disposte nei crocicchi, nei trivi e negli ingressi, come riporta un passo delle Vespe di Aristofane: “Come un Ecatèo ch’è dovunque davanti alle porte” (v. 804).
La rappresentazione trimorfa della dea è attestata per la prima volta da Pausania che menziona di tale aspetto una statua dello scultore Alcamene, allievo di Fidia e attivo nel V secolo a.C. ad Atene (Pausania, Periegesi della Grecia, II, 30, 2). La statua, Epipyrgidia, doveva trovarsi sul bastione di Atena sull’Acropoli. Le fonti antiche forniscono diverse interpretazioni circa l’iconografia del trimorfismo: come raffigurazione dei tre regni cosmici (Esiodo, Theogonia, vv. 413-414, 427) o come rappresentazione di tre differenti dee, Artemide, Ecate, Selene (Schol. Aristoph. Pluto, v. 594; Serv. Virg. Aen., IV 511). Secondo Athanassia Zografou la forma trimorfa ben si sposerebbe, inoltre, con la funzione di guardiana dei trivi (Zografou 2010, pp. 235-236, 247).
L’opera Borghese, inquadrabile nel II secolo d.C., è da considerarsi una delle numerose repliche di epoca romana ispirate all’archetipo di Alcamene in una resa classicistica. Un confronto pertinente si ritrova in un bronzetto, che mostra anche gli attributi tenuti dalla dea, conservato al Museo del Palazzo dei Conservatori (Stuart Jones 1926, pp. 285-286, pl. 114) e in una scultura oggi presso i Musei Capitolini nella Centrale Montemartini a Roma (Stuart Jones 1926, p. 228, n. 33, pl. 85). Infine, una piccola statuetta acefala e mancante degli avambracci, situata presso Museo Capitolino, presenta una conformazione del panneggio simile all’esemplare Borghese (Ensoli Vittozzi 1993, p. 227, n. 7, fig. 64).
Giulia Ciccarello