Segnalato a partire dagli elenchi fedecommissari ottocenteschi, il dipinto è stato avvicinato dalla critica all'ambiente veneto. L'effigie della Vergine, ricavata in antico da una composizione più ampia, è qui presentata contro lo sfondo scuro di un tessuto ricamato che attraverso un raffinato gioco di colori mette in risalto l'ovato e l'espressione assorta di Maria, vestita di un manto nero fermato sul petto da un piccolo nodo.
Salvator Rosa (cm 42,5 x 36 x 5,5)
Roma, collezione Borghese, 1833 (Inventario Fidecommissario Borghese 1833, p. 28). Acquisto dello Stato, 1902.
La provenienza di questo dipinto è tuttora ignota. La teletta, infatti, di certo un frammento di una composizione più grande, è attestata in collezione Borghese solo a partire dal 1833, erroneamente descritta - insieme al Cristo giovanetto di Bartolomeo Montagna (inv. 430) - come opera su rame.
Avvicinato alla scuola veneziana (Venturi 1893) e a quella veronese (Longhi 1928), il quadro, eseguito a detta di Paola della Pergola (1955) da un 'Maestro veneto' sensibile ai modi giorgioneschi della Madonna di San Pietroburgo (cfr. Valcanover 1951), è stato riferito da Bernard Berenson (1957) ad uno stretto collaboratore di Vittore Carpaccio, parere ad oggi mai vagliato dalla critica. In effetti, la tela - di buona qualità - sembra riflettere la maniera di un artista veneto dell'entroterra, aggiornato sulle esperienze lagunari, non indifferente nella resa delle espressioni e nella cura dei dettagli alla produzione di Antonello da Messina.
Antonio Iommelli