L’opera è attestata in collezione Borghese a partire dal 1790, assegnata negli antichi inventari al pittore lombardo Girolamo Muziano. Raffigura un profeta, difficilmente identificabile, la cui figura appare come un prodotto di una sovrapposizione di influssi e suggestioni manieristici e fiamminghi, riferibili alla cultura romana della fine del Cinquecento. Le grandi mani incrociate sul petto e la raffigurazione del soggetto contro lo sfondo scuro conferiscono alla composizione una forte carica emotiva e drammatica, resa ancor più enfatica dallo sguardo estatico e dalla bocca socchiusa dell'imponente vegliardo.
Roma, collezione Borghese, 1790 (Inventario 1790, Stanza VIII, n. 30; Della Pergola 1959); Inventario Fidecommissario Borghese 1833, p. 29. Acquisto dello Stato, 1902.
La provenienza di questo dipinto è tuttora sconosciuta. L'opera, infatti, è attestata nella raccolta Borghese solo nel 1790, descritta dall'estensore dell'inventario come 'Un Profeta, Muziano'. Tale attribuzione, ripetuta nel Fidecommisso (1833) e nelle schede di Giovanni Piancastelli (1891), fu accettata senza riserva da Adolfo Venturi (1893) ma scartata nel 1928 da Roberto Longhi, il quale avvicinò la tavola a '[...] un tardo manierista lombardo sul gusto dei Fiammenghini' (Longhi 1928). Nel 1959, in occasione della pubblicazione del secondo tomo dei dipinti della Galleria Borghese, Paola della Pergola pubblicò il dipinto come opera di un tardo manierista romano, vicino ai modi di Scipione Pulzone e di Girolamo Siciolante da Sermoneta, parere in parte raccolto da Kristina Herrmann Fiore che nel 2006 elenca la tavola come 'Maestro fiammingo romanista'. La confluenza in questa composizione di diversi stili e suggestioni rende di fatto problematico sostenere le diverse ipotesi finora avanzate, lasciando questo dipinto nell'anonimato della pittura romana della fine del XVI secolo. Patrizia Tosini (2008), scartando definitivamente la paternità di Muziano, coglie debitamente alcune affinità con il tardo Jacopino del Conte.
Antonio Iommelli