Il quadro figura nella collezione Borghese già alla fine del Seicento, essendo elencato nell’inventario del 1693 come di autore incognito. Giudicata una debole derivazione da un’opera di Federico Barocci, la critica ha ricondotto questa Annunciazione ad un seguace del maestro, verosimilmente collocabile nell’ambito culturale senese intorno alla fine del Cinquecento.
Salvator Rosa cm. 63,5 x 66 x 6,5
Collezione Borghese, citato nell’Inventario, 1693, Stanza II, n. 47; Inventario, 1790, Stanza II, n. 45; Inventario Fidecommissario Borghese 1833, p. 18, n. 44. Acquisto dello Stato, 1902.
Documentato in collezione Borghese fin dal Seicento, il dipinto, di provenienza ignota, è così elencato nell’inventario del 1693: “Un quadro di palmi due incirca con l’Annuntiata del n. 510 con cornice dorata. Incerto [autore]”. La corrispondenza dell’opera con questa sommaria descrizione è confermata dalla presenza del numero 510, ancora leggibile nell’angolo in basso a destra. La tela è menzionata come opera di Federico Barocci nell’inventario del 1790 circa, mentre in quello fidecommissario del 1833 è declassata a “maniera del Barocci”. Adolfo Venturi (1893, p. 185) ha proposto il nome di Benedetto Luti, rifiutato dalla critica (Moschini 1923, p. 123) in favore di un manierista influenzato dal maestro urbinate (Longhi 1928, p. 215; Della Pergola 1959, p. 71). Senza dubbio il quadro è rapportabile ai modi del Barocci pur mostrando una qualità pittorica nettamente inferiore. Si tratta con ogni probabilità di una derivazione dalla celebre Annunciazione della Pinacoteca Vaticana, oggetto di frequenti rielaborazioni da parte dei seguaci del maestro, ripresa liberamente con evidenti variazioni nella composizione. Appare dunque convincente l’attribuzione avanzata da Kristina Herrmann Fiore (2006, p. 126), secondo la quale la tela Borghese è stilisticamente riconducibile ad un seguace di ambito senese e databile alla fine del Cinquecento.
Pier Ludovico Puddu