L’opera è menzionata nell’inventario di Scipione Borghese (1620-1630). Sia il mito della Morte di Adone sia quello di Diana e Atteone presentano infatti elementi iconografici simili, quali i cani, attributo consueto di Diana ma altresì raffigurati al seguito di Adone e di Atteone durante le loro battute di caccia. Manca in effetti, ai fini dell’identificazione del tragico epilogo del tema di Adone, amato da Venere, la classica rappresentazione del cinghiale che lo ferisce a morte.
Collezione Borghese, Inventario 1620-1630; Manilli 1650, p. 102; Inventario 1693, Stanza I, n. 1, p. 220; Inventario 1790, Stanza II, n. 59; Inventario Fidecommissario Borghese 1833, p. 7. Acquisto dello Stato, 1902.
Il soggetto dell’opera è tratto dalle Metamorfosi di Ovidio (X, vv. 525-559): la dea della bellezza e dell’amore, colpita dalle frecce del figlio Cupido, si innamora del cacciatore Adone. Il forte sentimento nei confronti del giovane la conduce a metterlo in guardia sugli animali selvatici del bosco dove è solito svolgere le sue attività, in particolari i cinghiali, che sono infatti il mezzo che il dio Marte invierà per ucciderlo.
Ippolito Scarsella decide di raffigurare proprio il momento concitato, sconcertante e patetico della sorprendente scoperta del corpo esanime di Adone da parte di Venere, che viene sorretta da una ninfa mentre altre due esprimono un dolore corale a quello della dea attraverso il volto e i gesti. Sopra a questo gruppo femminile posto sulla sinistra della composizione, confusi tra le foglie di un albero, si trovano due amorini che hanno in mano arco, frecce e fiaccola, strumenti per mezzo dei quali possono far innamorare ma, come in questo caso, possono anche decidere la sorte crudele dei loro destinatari. Procedendo verso destra, si apre un paesaggio dove in alto, tra le nubi, si intravede un carro trainato da due cigni bianchi: è Venere che, udendo i lamenti agonizzanti del suo amante, si appresta a scendere presso la selva da cui provengono per verificare l’accaduto. In basso, in primo piano, i tre levrieri di Adone sembrano partecipare al consesso di dolore della dea e delle sue ancelle, avvicinandosi al loro padrone accanto al quale è sorto un anemone, fiore nato per volere di Venere dalle gocce di sangue dell’amato cacciatore. Proprio tra questi ultimi elementi naturalistici inseriti, in particolare il lamento dei cani e il pianto delle ninfe, è possibile riconoscere un altro elemento fondamentale per il soggetto dell’opera, ovvero un altro testo, diverso da quello ovidiano, utilizzato da Scarsellino come fonte per il dipinto: l’Epitaffio di Adone di Bione di Flossa di Smirne, composto nel II secolo a.C., ma pubblicato solo nel XV secolo (Miarelli Mariani in Immagini degli dei 1996).
La questione del riconoscimento dell’esatto soggetto del dipinto è fondamentale, dato che Ippolito, per aderire agli ideali di compostezza e bellezza presenti nella pittura emiliana di quell’epoca, cela la ferita mortale di Adone, inducendo l’estensore dell’inventario Borghese del 1790 a riconoscere l’opera come «Diana ed Endimione Scarsellino di Ferrara». Tale denominazione è stata anche ripresa in tempi recenti (Stefani 2000), sebbene senza alcun tipo di seguito.
Il dipinto compare per la prima volta nell’inventario della collezione Borghese datato 1620-1630 come un «Adone morto dal cignale con Venere, et altre figure» correttamente attribuito a Scarsellino, paternità che verrà sempre correttamente riportata negli inventari successivi.
La datazione dell’opera è, invece, controversa. Maria Angela Novelli, oltre a individuare il dipinto in analisi come pendant dell’Ermafrodito e Salmace (inv. 214), nei suoi molteplici contributi monografici sul pittore (1955; 1964; 2008) ha datato l’opera intorno al 1590, ravvisando nel paesaggio ricordi della pittura veneziana di Tiziano e Schiavone e degli elementi prefiguratori delle impostazioni compositive di Annibale Carracci e Francesco Albani. Lievemente in disaccordo Carlo Volpe (1959), che allarga il range temporale entro cui il dipinto dovrebbe essere stato eseguito, inserendolo cronologicamente tra il 1585 e il 1595.
L’ipotesi maggiormente accreditata è quella della realizzazione del dipinto nei primi anni del XVII secolo, così come congetturato già da Adolfo Venturi (1893), il quale la inserisce in una fase avanzata e già matura della produzione dell’artista soprattutto per le luci livide del cielo e i toni freddi con cui è tratteggiato il paesaggio; è dello stesso avviso Alessandro Morandotti (1997), che colloca questa tavola intorno all’anno 1600 in base alla grande componente decorativa presente nella composizione; concorda con lui nella datazione Kristina Hermann Fiore (2002). Seguendo queste supposizioni, sarebbe possibile inserire il Venere scopre la morte di Adone immediatamente dopo il Cristo coi discepoli sulla via di Emmaus (inv. 226) e poco prima di Ermafrodito e Salmace (inv. 214), creando una probabile continuità cronologica nei dipinti Borghese di mano dello Scarsellino.
La sensuale sinuosità delle figure, così come la forte attenzione al paesaggio inseriscono pienamente il dipinto nel filone della tradizione veneta ferrarese, capace di prefigurare la grande stagione della pittura emiliana del Seicento (Mariacher 1959; Volpe 1959; Herrmann Fiore 2002).
Lara Scanu