Il dipinto, uno dei primi ad essere pervenuto nelle mani del cardinale Scipione Borghese, fu eseguito dal pittore tedesco Lucas Cranach, autore di numerose Veneri caratterizzate da corpi sinuosi e allungati. In quest'opera l'avvenente dea è accompagnata da Amore ritratto con un favo tra le mani, un chiaro rimando ai suoi 'doni' che riservano, dopo l'iniziale e breve dolcezza, le punture dolorose delle api. I versi in latino, leggibili in alto a destra, sottolineano tale caducità, nonché la transitorietà dei favori di Venere, qui raffigurata nelle sembianze di una dama della corte di Sassonia con un raffinato copricapo alla moda e una preziosa reticella dorata.
Cornice seicentesca decorata con palmette (cm 192,5 x 93 x 7)
(?) Padova, collezione Alvise Corradini, ante 1611 (Herrmann Fiore 2010); Roma, collezione Scipione Borghese, 12 gennaio 1611 (Coliva 2010); Inventario ante 1633, n. 186 (Corradini 1998, p. 453); Roma, collezione Borghese, 1650 (Manilli 1650); Inventario Fidecommissario Borghese 1833, p. 11. Acquisto dello Stato, 1902.
In alto a destra: "DUM PUER ALVEOLO FURATUR MELLA CU[PIDO]/FURA[N]TI DIGITUM CUSPITE FIXIT APIS/SIC ETIA[M] NOBIS BREVIS ET PERITURA VOLUPTA[S] QUA[M]/ PETIMUS TRISTI MIXTA DOLORES NOCET"
Sulla rete dei capelli di Venere: "W.A.F.I."
Già datato sul tronco '1531' (attualmente leggibile solo la prima cifra '1...')
In esposizione temporanea alla Galleria Nazionale d'Arte Antica per la mostra "Raffaello, Tiziano, Rubens. Capolavori dalla Galleria Borghese a Palazzo Barberini"
"Ridendo, la madre gli disse: Non sei forse tu stesso come l'ape? Sei piccolo, ma che ferite sai provocare" (Teocrito, Idilli, XIX). Con questi versi, il poeta ellenistico Teocrito chiudeva l'episodio di Amore keriokleptes («il ladro di miele»), tratto dalla raccolta di trenta componimenti nota con il nome di Idilli. Secondo tale poemetto, il cui senso è riassunto in due distici di carattere morale leggibili nel dipinto ("Come Cupido bambino ruba il miele dall'alveare e l'ape punge il ladro sulla punta del dito, così anche la caduca e breve voluttà delle nostre brame amorose è nociva e porta tristezza e dolore"; cfr. Hinz 2010), la puntura delle api è paragonata alle ferite provocate dai dardi acuminati del dio dell'amore che in questa tavola, dopo aver spillato del miele da un favo, frigna per il dolore implorando l'aiuto della madre.
Di questo soggetto, variamente replicato da Lucas Cranach il Vecchio (Della Pergola 1959), sono note ben ventiquattro versioni (Della Pergola 1959; Hermann Fiore 2010; Hinz 2010), serie iniziata nel 1509 a cui appartiene il quadro in esame, eseguito con tutta probabilità nel 1531, come una volta suggeriva una scritta leggibile sul tronco al centro della composizione, rifatta secondo alcuni (Della Pergola 1959; Herrmann Fiore 2010) insieme alla sigla riproducente un serpente alato. Tale data, largamente accettata dalla critica (Della Pergola 1959; Hermann Fiore 2006; Ead. 2010) e di cui rimane solo la prima cifra, coincide tra l'altro con l'anno di pubblicazione del Libro degli emblemi di Andrea Alciati, in cui non a caso compare l'emblema del ladro di miele, effigie sicuramente nota al pittore tedesco (Alciati 1531, n. XC). Il soggetto di questo dipinto, infatti, prese forma sicuramente a Wittenberg, cittadina al Nord della Germania, protagonista negli anni Trenta del XVI secolo di una grande stagione artistica e culturale, sede di una prestigiosa università e crocevia di mercanti, streghe, preti e lestofanti. Come è noto, proprio qui nel 1517 Martin Lutero aveva pubblicato le sue 95 tesi, catapultando il paesino tedesco su una scena internazionale, condizionata ormai da regole ferree dettate dalla Riforma protestante. Gli artisti, duramente colpiti da questa situazione, furono pertanto obbligati a produrre immagini ben studiate, talvolta corredandole - come nel caso della Venere Borghese - di distici latini per esprimere senza fraintendimenti la vena moraleggiante di fondo e far sì che una pittura profana, eseguita per raffinati e colti committenti, potesse essere compresa appieno. Di fatto, Cranach, amico di Lutero e contemporaneamente pittore di corte di Federico il Saggio, riuscì a produrre una quantità insolita di quadri con nudi femminili, curiosamente ricercati in un Paese che difficilmente poteva ammirare capolavori discinti della statuaria antica, dove l'eccezione era rappresentata unicamente dalle immagini nude di Adamo ed Eva o degli antichi martiri romani. Ma qui, ad essere ritratta è una donna della corte di Sassonia, raffigurata come un'avvenente divinità, completamente nuda e con un cappello che la riporta chiaramente al mondo contemporaneo, trasfigurata però dai versi latini in un'immagine allegorica della voluptas e delle sue amare conseguenze. Come chiarito da Peréz D'Ors (2007), questa singolare iconografia scaturiva dall'incontro tra il pittore tedesco e Georg Sabinus, professore di greco all'università di Wittenberg, autore nel 1536 della prima traduzione latina degli Idilli teocritei. Questi, amico di Cranach, era genero di Filippo Melantone che un decennio prima aveva tenuto una conferenza pubblica presso l'antico municipio teutonico, incentrata sui poemi del poeta siracusano, veicolando di fatto su quest'opera l'interesse dell'intera intellighenzia (Id.).
Secondo la critica (Herrmann Fiore 2010), un precedente importante per tale composizione fu un'incisione di Albrecht Dürer raffigurante il Sogno del dottore (1504), da cui il maestro tedesco avrebbe ripreso il posizionamento dei personaggi nell'opera - Venere a tutt'altezza sulla destra, Cupido sulla sinistra il cui piede sfiora il margine del dipinto - oltre al gioco delle braccia e del velo dell'avvenente dea. Accanto a questa ipotesi, va' però ricordato che la rappresentazione stante di Venere, ritratta nuda al limite della tavola, ha altri precedenti, quali la xilografia con il Trionfo degli uomini nuovi sui satiri (1497) di Jacopo de' Barbari, artista veneziano al servizio di Federico il Saggio, sostituito nel 1505 da Cranach; e la nota incisione di Dürer raffigurante Adamo ed Eva (1504), dove tra l'altro ritorna il motivo del braccio destro disteso e la riproduzione alle spalle dei due protagonisti di un albero a 'Y', forma biforcuta che rimanda al bivio tra la via virtutis e la voluptas (Herrmann Fiore 2010).
Altro dettaglio importante è il cappello rosso impreziosito da piume di gru, accessorio particolarmente in voga alla corte dei duchi di Sassonia dove le donne per raccogliere i loro capelli optavano tra questo singolare copricapo e una cuffia ricamata con grosse perle, qui entrambi indossati dalla bella Venere in aggiunta a un collier di gemme preziose e un nastro su cui sono ricamate le lettere "W.A.F.I.", forse un rimando al nome dell'effigiata.
Per quanto concerne la sua provenienza, secondo Kristina Herrmann Fiore (2010), la tavola pervenne nelle mani del cardinale Scipione Borghese tramite il giurista padovano Alvise Corradini. Questi, come testimoniato da Johannes Thuilius nell'edizione del 1621 degli Emblemata dell'Alciati, era proprietario di una Venere su tavola 'manu periti artificis depicta' in cui compariva lo stesso motto del dipinto romano (cfr. Leeman 1984, pp. 274-275; Herrmann Fiore 2010), dettaglio che ha spinto gli studiosi a identificare l'opera in esame con l'esemplare segnalato a Padova, sempre che quest'ultimo non risulti l'ennesima variante di quella serie di Veneri, il cui incunabolo si conserva attualmente a San Pietroburgo (Ermitage, inv. 680).
Nonostante qualche dubbio permanga circa la provenienza del quadro da casa Corradini, è certo invece che fu incorniciato dal falegname Annibale Corradini nel 1611 (Coliva 2000; per una nota di pagamento del 1613-14 già riferita dubitativamente all'opera in esame si veda Della Pergola 1959) per formare pendant con la Venere del Brescianino (inv. 324), capolavori entrambi ricordati nella stessa sala sia dall'estensore dell'inventario databile al 1633 circa (Corradini 1998; Pierguidi 2014), sia da Iacomo Manilli che nel 1650 segnalò la dea di 'maniera tedesca' come appartenente a quel primo gruppo di opere appartenute al volitivo Scipione ("nella seconda stanza [...] le due Veneri in piedi, quadri lunghi e strettti: la prima è stimata d'Andrea del Sarto [sic]: la seconda, assai finita, è maniera tedesca"; Manilli 1650). La tavola, trasferita poco dopo in altra sede, risulta di fatto assente nei documenti borghesiani e nelle diverse Guide fino al 1833 quando ricompare negli elenchi fidecommissari correttamente attribuita al Cranach, nome rimasto da sempre immutato.
Antonio Iommelli