Ritenuta a lungo opera di Andrea del Sarto, la tavola era collocata, alla metà del Seicento, nella Stanza delle Veneri, di fronte alla Venere del Cranach. La Venere con due amorini, di chiara ispirazione classica, è oggi concordemente assegnata al Brescianino, che l'avrebbe eseguita nel terzo decennio del Cinquecento.
Collezione di Scipione Borghese (?) citata nel 1650 da Manilli; inv. 1693 (p. 68); Inventario Fidecommissario Borghese 1833, p. 24. Acquisto dello Stato, 1902
In esposizione temporanea al Musée Jacquemart-André di Parigi
La tavola di Andrea del Brescianino dimostra in particolar modo il collezionismo erudito e ricercato di Scipione Borghese. A lungo ritenuta opera di Andrea del Sarto, la tavoletta era collocata, alla metà del Seicento, nella Stanza delle Veneri, di fronte a quella del tedesco Lucas Cranach il Vecchio. Questa sorta di ‘dialogo’ vedeva confrontarsi «due Veneri in piedi, quadri lunghi e stretti»: secondo l’allestimento scelto dal cardinal nepote erano accostate due opere di simile soggetto e formato, seppure di stile assolutamente diverso. La nostra Venere, solo nel Novecento attribuita ad Andrea del Brescianino, è infatti caratterizzata da quella tipica ‘morbidezza’ italiana, scultorea e di chiara ispirazione classica. Il carattere statuario viene amplificato dalla finta nicchia architettonica che la incornicia e dalla quale, leggiadramente, la Venere sembra scendere, oltre che dall’infinita gamma di grigi, sapientemente utilizzati dal pittore, che mutano in intonazioni perlate e rosa nell’incarnato. Il riferimento mitologico alla nascita della dea dalla spuma del mare permane nel guscio di conchiglia che ella tiene nella mano destra e nella quale sembra specchiarsi.
Secondo Della Pergola, la tavola del Brescianino potrebbe essere entrata in collezione Borghese attraverso l’eredità del cardinale Antonio Maria Salviati morto nel 1602 (1959, pp. 19-20). L’opera è documentata nel 1650 in Villa Borghese fuori Porta Pinciana di Iacomo Manilli con attribuzione ad Andrea del Sarto, che venne ripetuta negli inventari successivi; Platner (1842, p. 292) assegnava la tavola a Domenico Beccafumi, Venturi (1893, pp. 160-161) avvicinava la Venere alla mano di Franciabigio mentre Voss proponeva il nome del Puligo (1920, I, p. 160). Il primo a stimarla di Andrea del Brescianino fu Frizzoni (1911-12, p. 267); la tesi venne poi comunemente accolta, a partire da Berenson (1936, p. 98), Longhi (1928, p. 348), De Rinaldis (1948, p. 52). La Coliva vi riconosce quel sincretismo in grado di coniugare alle influenze dei grandi maestri del Rinascimento l’altrettanto complessa maniera di Sodoma e Beccafumi (Coliva 1994, p. 83).
Gabriele De Melis