Il dipinto proviene probabilmente dalla vendita del cardinale Sfondrato a Scipione Borghese (1608). Il soggetto, di natura mitologico-allegorica, è assai frequente in ambito veneziano durante il secolo XVI. Precedentemente riferito a un prototipo del Veronese, è attualmente ritenuto una tarda derivazione da un modello tizianesco.
Cornice ottocentesca, fregio esterno a foglie di loto/palmette
142 x 136 x 12 cm
Restauro 2007
(?) Cardinale Paolo Emilio Sfondrato, 1608 (Della Pergola, 1955, p. 136); Van Dyck, 1622-23; Collezione Borghese, Inventario 1693, Stanza V dell’Udienza, n. 68 (Della Pergola, 1964, 28, p. 457, n. 301); Inventario Fidecommissario Borghese 1833, “Stanza delle Veneri”, p. 12; Piancastelli, ms, 1891, p. 52. Acquisto dello Stato, 1902.
Un tendaggio verde scuro arricchito da una striscia dorata fa da sfondo alle figure rappresentate in questo dipinto, tutte in primo piano ma scalate l’una rispetto alle altre. Il personaggio più esterno, e l’unico ad essere rappresentato a figura intera in piedi su un alto basamento, è a tutta evidenza Amore. Nudo, con le piccole ali sulle spalle, è intento in un lavoro di intaglio del suo arco, sospeso per volgersi e guardare l’osservatore. L’arco, come anche la gamba sinistra di Amore, è poggiato su una faretra (dotata di diverse frecce e di un elegante nastro rosso per indossarla), sulla quale sono caduti alcuni trucioli. Tra le gambette di Cupido si intravede sul basamento un drappo rosso ricaduto su stesso, mentre in bella vista, quasi sull’orlo, compare un piccolo contenitore biansato e riccamente sbalzato all’antica (si intravede un mascherone), probabilmente per contenere, ed effondere, unguenti profumati o balsami medicamentosi. Sul basamento siede anche Venere, pure completamente nuda se non per i drappi bianco e amaranto che le coprono il grembo, adornata con orecchini di perle che arricchiscono anche l’acconciatura, in cui i capelli biondi e ricci sono parzialmente raccolti. Con la sinistra tiene la freccia dell’arco di Amore, che si volta a guardare; la destra stringe pure alcune frecce, e si posa nello spazio tra le due colombe, suoi ricorrenti attributi. Alle sue spalle, contro il cielo azzurro, si staglia la figura di un satiro, scuro e quasi mostruoso, che con le braccia alzate reca una cesta carica di frutti.
Non sono note le vicende relative alla provenienza del dipinto, che tuttavia è già in collezione Borghese nei primi anni Venti del Seicento quando Antoon Van Dyck lo ritrae nel suo taccuino di schizzi italiano accanto alle altre opere tizianesche della quadreria. A fronte di questa precoce citazione, non è escluso che sia dunque tra le opere acquistate da Scipione Borghese dal cardinale Paolo Emilio Sfondrato nel 1608 (Della Pergola, 1955).
L’attribuzione a Tiziano, che campeggia nel foglio di Van Dyck, è confermata poco più tardi da Manilli (1650), il quale ricorda in villa “il quadro di Venere, con Amore innanzi, e con un Satiro dalla banda di dietro”, collocato nella stanza dell’Ermafrodito (attuali sale XVI, XVII e XVIII, allora unico ambiente) insieme alla “Venere colca” di Paris Bordon (inv. 119) e a uno dei Baccanali di Tiziano copiato dal Cavalier d’Arpino. Tuttavia, e qualora si voglia identificare il nostro dipinto con il “quadro d’una Venere con Cupido, e doi palombelle bianche” dell’inventario redatto intorno al 1633 (Corradini), l’autografia tizianesca era già stata messa in dubbio (“autore incerto”), e mai più riconsiderata negli inventari successivi. Nel 1693 la “Venere con Amorino e un Satiro con una canestra di frutti in testa” compare nella sala dell’Udienza del Palazzo Borghese come opera di Paolo Veronese (Della Pergola, 1964), e così nel catalogo databile al 1790 (De Rinaldis, 1937) e quindi nell’elenco fidecommissario del 1833. Venturi ascrive l’opera a “un seguace di poco talento” considerandola una “composizione sgangherata”. La definizione non trova d’accordo Giulio Cantalamessa il quale, nelle sue successive note manoscritte all’edizione di Venturi, da un lato richiama lo schizzo di Van Dyck, dall’altro rigetta come assurda l’attribuzione a Paolo Veronese. Paola Della Pergola ritiene il dipinto copia da un esemplare di Paolo (Pignatti).
Più recentemente, si tende a ricondurre il dipinto all’ambito tizianesco in senso lato, proprio o derivato da modelli ampiamente utilizzati all’interno della bottega di Tiziano.
A tal proposito, Herrmann Fiore (1995) faceva cenno a un’opera ricordata in casa del nobile padovano Galeazzo “Relogio” (Dondi dall’Orologio) da Ridolfi, e cioè a “un capriccio di una donna con le braccia ignude, che tiene sopra a ginocchi la palla del Mondo entro la quale traspare picciolo bambino: havvi un giovinetto appresso con serpi in mano, & un mostro tiene una tazza ripiena di frutti”. Se questa descrizione a tutta evidenza non corrisponde alla composizione del nostro dipinto, il “mostro con la tazza ripiena di frutti” richiama tuttavia il fortunatissimo prototipo tizianesco - la figura con le braccia alzate recante una cesta o un vassoio o un piatto – replicato in infinite varianti, maschili e femminili, adattato per satiri o per le diverse Salomé o Giuditta, per fanciulle o giovanetti, presente nelle allegorie disseminate in collezioni pubbliche e private, europee o d’Oltreoceano (tra cui Louvre; Hampton Court; Monaco, Alte Pinakothek; Chicago, Art Institute), e anche in questa versione Borghese. La quale può essere diversamente considerata prodotto diretto della bottega di Tiziano, se si accoglie l’attribuzione a Girolamo Dente (Le botteghe di Tiziano), e dunque collocabile tra gli anni Quaranta e Cinquanta del Cinquecento; o piuttosto invenzione derivata, autonoma ma realizzata su assai ben riconoscibili cifre tizianesche, più tarda, collocabile in un momento di rinnovata e ampia fortuna del Tiziano delle favole antiche, delle Veneri, degli Amori. Risulterebbero in quest’ultimo caso non banali le considerazioni di Longhi, il quale attribuiva il dipinto alla scuola di Tiziano ritenendolo una “imitazione generica dai classici veneziani ad opera di un qualche buongustaio arcaista nel genere del Padovanino”: ipotesi avanzata anche da parte della critica più recente, che riferisce appunto ad Alessandro Varotari, o alla sua cerchia, l’esecuzione del nostro dipinto (Cappelletti 2014). Proprio in Varotari, padovano di origine, tizianesco di adozione, potrebbe trovarsi il punto di connessione tra l’evidente matrice tizianesca del dipinto (nello stile e nei prototipi utilizzati) e la capacità del pittore padovano, notissima all’epoca, nell’imitare le creazioni di Tiziano al punto di riuscirne ad inventare la maniera. In lui potrebbe dunque trovarsi l’autore del nostro dipinto, registrato precocemente in una delle più importanti quadrerie di Roma: la città che, tra fine Cinquecento e i primi decenni del secolo successivo, rappresenta il contesto più importante in cui si manifesta la fortuna del Tiziano autore di allegorie mitologiche, che giungono nelle raccolte cardinalizie romane dove sono ammirate, studiate, copiate; che è anche il luogo di azione del Varotari, a Roma sicuramente tra il 1614 e il 1618 (o forse la fine del 1615), intento nella copia dei Baccanali di Tiziano, allora nella villa Aldobrandini. Se questo episodio è noto, e documentato se non altro dai dipinti tuttora esistenti (Accademia Carrara, Bergamo) oltre che dai biografi antichi, rimangono da circoscrivere i contorni di questo soggiorno romano, delle circostanze che potrebbero averlo favorito, se non motivato, da indagare forse nel contesto padovano di origine, di eruditi e filologi, antiquari e collezionisti in continuo dialogo con ben noti corrispondenti, a Roma e ovunque nella ‘Repubblica delle lettere’. Come anche è ancora tutta da indagare la relazione con il cardinale Borghese e la sua raccolta, che potrebbe aver frequentato con le medesime intenzioni di studio (e di copia). Imponendosi, a quanto riferisce Boschini, nell’orizzonte romano come una sorta di alter Titianus, proprio come “i Virtuosi di Roma professori dell’Arte” che “lo andavano vedere ad operare, facendo stupori e meraviglie” in quanto “valoroso de copiar” (Boschini, 1674), Varotari potrebbe aver attirato l’attenzione del cardinale, fino al punto, magari, di produrre un dipinto così vicino al maestro da considerarsi autentico. In assenza di riscontri, l’ipotesi rimane piuttosto una suggestione: certo è che nei primi decenni di presenza nella quadreria la tela è considerata indubbiamente di Tiziano. Questo è il nome che l’ha sicuramente accompagnata nel suo ingresso in collezione, sia che si voglia seguire l’ipotesi Varotari, sia che invece si ceda a quella più percorsa (e sicura) di una provenienza dalla vendita della collezione di Paolo Emilio Sfondrato al cardinale Scipione Borghese nel 1608 (Della Pergola, 1955).
Il dipinto è stato interessato da un intervento di pulitura nel 1952 (Augusto Cecconi) e da operazioni più complete nel 2007. Nella relazione di restauro, conservata presso l’Archivio restauri del Museo, si fa riferimento a una precedente rifoderatura sulla tela originale e alla presenza, sulla tela di rifodero, della targhetta fidecommissaria “iscrizione fidecommissaria del dì 3 giugno 1834 … camera delle Veneri n. 18 / Venere con satiro e Amorino di Paolo Veronese” e di una scritta in alto al centro “27”.
Maria Giovanna Sarti