L’opera è segnalata in collezione Borghese già dalla metà del Seicento. Il tema raffigurato potrebbe anche essere identificato con la ninfa Antiope sedotta da Giove trasformatosi in satiro, ma la mela che questi sta cogliendo dall’albero rimanda alla figura di Venere, e al Giudizio di Paride. Già riferita alla scuola di Tiziano, la tela è concordemente attribuita a Paris Bordon.
Cornice del tipo Salvator Rosa 124,5 x 172 x 8 cm
Restauri 2000 e 2009
Collezione torinese di Margherita di Valois, duchessa di Savoia (Manfredini)(?); Roma, cardinale Scipione Borghese (Manilli 1650); Inventario Borghese 1693, Stanza VI, n. 308 (Della Pergola 1964); Inventario Fidecommissario Borghese 1833, p. 25. Acquisto dello Stato, 1902.
in basso a sinistra, scritto a pennello in ocra chiara, il numero 472; a destra, vicino al piede del puttino: .o. bordonus.
Non sono note le vicende di ingresso nella collezione Borghese, nella quale è citato tuttavia già nel 1650 (Manilli) come “La Venere colca, che ha in piedi Cupido, e un Satiro” di Paris Bordon. Questa attribuzione, confermata dall’inventario del 1693 (Della Pergola, 1964), si perde tuttavia nelle successive testimonianze – nel catalogo del 1790 circa è Tiziano, e per l’inventario fidecommissario del 1833 è scuola di Tiziano – mentre la critica di fine Ottocento lo ritiene un prodotto di mediocre valore: una brutta copia da Paris Bordon (Morelli), ricondotto al maestro da Venturi, che vi vide un’opera originale se non di buona maniera, seguito in ciò da Aldo De Rinaldis (1935).
Gli studi più recenti lo ritengono concordemente opera autografa del pittore trevigiano, collocabile in una fase tarda della sua produzione, e dunque tra la fine del sesto e la prima metà del settimo decennio del Cinquecento.
Adagiata su un drappo rosso che parzialmente le copre il braccio sinistro e la coscia destra, una figura femminile giace nuda e addormentata, con il gomito appoggiato a terra, le gote rosse e una ciocca di capelli sensualmente ricadente sulla spalla. Dietro di lei, contro una quinta arborea e verso il centro della composizione, si staglia la figura di un satiro che si protende verso un albero a raccogliere un pomo. Sulla destra, un Cupido di cui si intravede solo un’ala solleva da terra l’estremità del telo con il quale si copre il capo. Sullo sfondo, a destra, il paesaggio si apre contro un cielo di tramonto.
Il dipinto è una rielaborazione di temi e tipologie molto frequentate in ambito veneto a partire dall’indiscusso prototipo della Venere di Dresda, riproposto in infinite varianti e repliche, di diversa fattura e qualità, di bottega o di celebrata autografia, disponibili in gran numero per un mercato avido di questo tipo di produzione. Del nostro dipinto è nota una variante, precedente e più raffinata, conservata presso la Galleria Franchetti alla Ca’ d’Oro di Venezia, segnalata a suo tempo da Suida, in cui è assente il satiro e la donna si caratterizza indubbiamente come Venere: le rose sparse sul drappo rosso, che si adagia e intreccia a sua volta su uno bianco; la faretra di Cupido appesa al tronco alle sue spalle. Ancora a una variante della nota tipologia potrebbe essere riferita la citazione vasariana, che ricorda una “Venere con Cupido che dormono custoditi da un servo” realizzata “per la duchessa di Savoia”, Margherita di Valois (Vasari; Manfredini): la notizia sembra tuttavia difficile da riferirsi al nostro esemplare (Simone), dove comunque, e al netto delle possibili imprecisioni, Cupido non è dormiente, non compare un servo ma un satiro, non torna soprattutto l’attestazione di grande qualità del “bellissimo quadro” e dei personaggi rappresentati, “tanto ben fatti che non si possono lodare a bastanza” (Vasari).
Il tema rappresentato è quello della ninfa, o Venere dormiente, secondo un modello classico che si vuole far risalire a un bassorilievo antico destinato ad ornare una fontana, e riproposto nella nota illustrazione dedicata a Venere genitrice di tutte le cose, PANTON TOKADI, dell’Hypnerotomachia Poliphili di Francesco Colonna (1499) (Simone), in cui un satiro adulto alla presenza di due più piccoli, scopre una Venere, nuda, distesa, coperta solo da un lembo del drappo su cui è adagiata durante il suo sonno.
Non è un caso che, stante il tema, il nostro dipinto figuri in quelle stanze delle residenze Borghese dedicate a Venere, insieme a dipinti congruenti per soggetto: nel 1650 Manilli lo ricorda nella stanza dell’Ermafrodito della villa fuori porta Pinciana (attuali sale XVI, XVII e XVIII, allora unico ambiente) insieme al “quadro di Venere, con Amore innanzi, e con un Satiro dalla banda di dietro” (inv. 124); nel 1693 è registrato come con una “Donna che dorme et un Amorino gli porta via la coperta con un Satiro del n. 422 cornice dorata del Paris bordona” nella sesta stanza del palazzo di Ripetta (Della Pergola, 1964). In questo stesso ambiente, che nel corso del Settecento sarà chiamato “stanza delle Veneri”, lo ricordano infatti il catalogo della quadreria databile circa al 1790 come “Venere che dorme Amore e Satiro che scherzano, Tiziano” (De Rinaldis, 1937), e l’inventario fidecommissario del 1833.
I personaggi del dipinto sono stati anche identificati come Giove e Antiope, richiamando dunque un soggetto mitologico di vocazione bucolico-pastorale pure ampiamente frequentato, secondo il quale la ninfa viene sedotta da Giove in sembianze di satiro (Bailo - Biscaro). Permane tuttavia la tendenza a vedere nella nuda una delle accezioni iconografiche (e di significato) di Venere, per la presenza di Cupido e per la mela colta dal satiro, che rimanda al Giudizio di Paride, ma anche forse al nome del pittore (Mariani Canova, 1984).
Nel corso del tempo il dipinto ha subito interventi di una certa consistenza, che ne hanno alterato forse la qualità, sicuramente le dimensioni.
Le foto più antiche, databili entro la fine degli anni Venti, restituiscono l’immagine di una tela più ampia rispetto allo stato attuale, rivelando la presenza di una striscia aggiuntiva in alto, con la quinta di alberi a sinistra, e una porzione di cielo più ampia a destra, marcata da una linea orizzontale ben visibile a indicare la cucitura tra due pezze di tela.
Si tratta con ogni probabilità di un’aggiunta - magari a fronte di una sopravvenuta necessità di allestimento, realizzata in un momento imprecisato, ma entro il 1833 (l’inventario fidecommissario registra le dimensioni “allargate”) - rispetto alla condizione originale, restituita con un intervento collocabile tra gli anni Trenta e Quaranta del secolo scorso, nell’ambito di un’operazione di ripristino non certo isolata nell’orizzonte dei restauri di quei decenni, e presso la Galleria Borghese.
A sostegno dell’ipotesi che il quadro originale fosse di dimensioni simili alle attuali stanno due ragioni. La prima è data dall’inventario del 1693, che lo ricorda come “un quadro grande di 4 palmi bislongo”, laddove per “bislongo” si intende senza ombra di dubbio un dipinto ben più largo che alto, e per “4 palmi” ci si riferisce, come accade per altre ricorrenze all’interno dello stesso inventario, alla misura dell’altezza.
Il secondo elemento viene dal modello, ricorrente almeno in un caso nella produzione di Paris Bordon, costituito dall’esemplare della Ca’ d’Oro dove è vero che il satiro non compare, ma le dimensioni sono decisamente “bislunghe” (86 x 137 cm), come peraltro, e propriamente, quelle dei dipinti con Veneri (o ninfe) giacenti, dal celebre prototipo di Giorgione/Tiziano, ai quali il nostro dipinto è del tutto allineato.
Maria Giovanna Sarti