Collezione Borghese, citato per la prima volta nell’Inventario 1790, Stanza II, n. 3; Inventario Fidecommissario Borghese 1833, p. 17, n. 33. Acquisto dello Stato, 1902.
Il dipinto, attribuito al Cavalier d’Arpino (Giuseppe Cesari), rappresenta un giovane guerriero a mezzo busto, con il volto e lo sguardo orientati alla propria sinistra, colto in un’espressione minacciosa. Il personaggio indossa una lorica decorata a mascheroni e porta un elmo dorato, riccamente ornato da motivi animali e vegetali e da un pennacchio bianco. Nella parte inferiore è visibile l’elsa della spada, che il guerriero porta ancorata alla cintura, il cui pomolo si presenta anch’esso zoomorfo. La maestosità degli ornamenti, la presenza di diversi attributi e il confronto con altri ritratti affini permettono di identificare l’effigiato con il sovrano macedone Alessandro Magno. Il protagonista porta sulle spalle una pelle di animale, rimando alla leontè indossata da Eracle e ricavata dalle spoglie del leone di Nemea, trofeo della prima delle sue leggendarie fatiche. La rappresentazione di Alessandro Magno come Eracle allude al processo di mitizzazione del giovane sovrano, identificato con l’eroe, e tende al esaltare la sua leggendaria origine semidivina quale frutto dell’unione tra Zeus e la mortale Olimpiade. Questo tipo iconografico affonda le sue radici in epoca ellenistica, come dimostrato dai coni monetali e dai ritratti scultorei del conquistatore macedone, ed ebbe grande fortuna anche durante l’impero romano e successivamente in età moderna. Nel dipinto Borghese l’effigiato tiene nella mano destra una statuetta di Nike, dea della vittoria, che gli porge la corona di alloro, simbolo trionfale anticamente riservato ad alcune divinità olimpiche come Zeus e Atena (si pensi alle perdute statue crisoelefantine rispettivamente a Olimpia e ad Atene, rappresentanti gli dei con il medesimo attributo), e talvolta accostato a condottieri di particolare valore. Nonostante sia un simbolo ampiamente diffuso nelle rappresentazioni trionfali dall’antico in avanti, la piccola statua appare infatti più comunemente accanto ai vincitori, non tenuta in mano da questi ultimi, elemento che può dirsi riservato solo ad alcune rappresentazioni. La Nike raffigurata nel quadro Borghese allude quindi certamente alle conquiste conseguite da Alessandro, ma rafforza anche il richiamo alla sua condizione di semi-dio, destinato alla vittoria fin dalle sue stesse origini, e alla grandezza raggiunta sul campo di battaglia. La conferma dell’identificazione del personaggio rappresentato con Alessandro Magno emerge dal confronto con il dipinto di stesso soggetto eseguito da Giulio Romano (Giulio Pippi), di cui il dipinto Borghese è un’evidente derivazione. L’opera del Pippi fu eseguita intorno al 1537-1538 verosimilmente su commissione di Federico II Gonzaga, duca di Mantova, al cui servizio si trovava l’artista in quegli anni. Il quadro, di cui sono alcune repliche e copie, è documentato nella raccolta ducale nel 1627 e si trova oggi conservato al Musée d’art et d’histoire di Ginevra (S. Lapenta, R. Morselli, Le collezioni Gonzaga. La quadreria nell’elenco dei beni del 1626-1627, Milano 2006, p. 149; Legrand 2008, pp. 27-47). L’esistenza di altre versioni attestate in collezioni mantovane cinque e seicentesche (Legrand, cit.) testimonia la fortuna di questa iconografia mutuata, come ricordato da Vasari (Vite de’ più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani, da Cimabue a’ tempi nostri, parte III, vol. I, Firenze 1568, p. 334) a proposito dell’esemplare già in collezione Maffei, dalla medaglistica antica: “oppresso del conte Nicola Maffei è un quadro d'uno Alessandro Magno, con una Vettoria in mano, grande quanto il naturale, ritratto da una medaglia antica, che è cosa molto bella”. Il confronto tra l’Alessandro Magno di Giulio Romano e la tela Borghese suggerisce che quest’ultima abbia subito una leggera riduzione sul margine superiore, in corrispondenza dell’elmo, che appare infatti tagliato all’altezza del leone che lo sormonta. Il dipinto si trova in collezione Borghese a partire almeno dal 1790, come dimostra la relativa citazione nell’inventario di tale anno: “Un guerriero, Cavalier d’Arpino”. Nel successivo elenco fidecommissario del 1833, il quadro ritorna nuovamente con l’attribuzione al Cesari, ripresa da Piancastelli (1891, p. 362) e Venturi (1893, p. 214). Diversamente Longhi (1928, p. 222; Id. 1967, p. 328) riconduce l’opera ad un ambito di scuola del nord Italia verso la metà del Cinquecento, opinione condivisa da De Rinaldis e che anche Della Pergola (1959, pp. 65-66, n. 95) riconosce supportata a livello stilistico, mantenendosi tuttavia più cautamente nell’orbita di D’Arpino indicata dai riferimenti documentali. Negli anni seguenti la critica non è tornata sulla questione attributiva e a questo proposito va segnalata l’assenza di riferimenti all’opera da parte di Herwarth Röttgen nei suoi studi monografici sull’artista (Il cavalier Giuseppe Cesari d’Arpino. Un grande pittore nello splendore della fama e nell’incostanza della fortuna, Roma 2002), che può essere di per sé indicativa del mancato accoglimento dell’autografia arpinate da parte dello studioso. In attesa di nuovi riscontri che aiutino a dirimere le incertezze riguardo la paternità del quadro, il riferimento al Cavalier d’Arpino permane attualmente come l’unico supportato su base inventariale, da cui è ricavabile una datazione del dipinto alla prima metà del Seicento. La tela Borghese potrebbe essere stata dipinta sulla base di quest’ultimo, di una delle altre versioni derivate oppure di una stampa di traduzione. Gli accenti del nord Italia notati dalla critica a partire da Longhi (cit.) possono essere ricondotti all’affinità tematica e compositiva con la serie degli undici imperatori commissionati a Tiziano intorno al 1536 per il Palazzo Ducale di Mantova (distrutti nel Settecento), a cui Giulio Romano dovette ispirarsi per la realizzazione dell’Alessandro Magno. Alla fine degli anni Trenta del Novecento il quadro viene ceduto per decorare la villa del Maresciallo Badoglio e ritorna in Galleria Borghese nel 1945.
Pier Ludovico Puddu